Ho sempre pensato che per provare a capire la “cifra” di un vignaiolo bisognasse testarne almeno una bottiglia a tavola in compagnia di qualche buon amico. L’assaggio condiviso difficilmente avrebbe lasciato scampo alle melliflue bugie imposte dal marketing contemporaneo. Beh, nell’incontro con Marina Ciancaglini e Giacomo Lippi, le due facce dell’anima agricola di Val di Buri, tutto ciò non è servito e ti sto per raccontare il perché.
Quel lunedì di inizio ottobre era un giorno speciale. Dopo non so quanto tempo, si riuniva la “vecchia banda” e per questo motivo una bella visita in cantina prima e una stimolante cena poi apparivano sacrosante. Dell’esperienza al Moi Omakase di Prato te ne parlerò in seguito, del resto adesso.
Il ritrovo con Giacomo e Marina era dal benzinaio sulla destra all’uscita dal casello autostradale di Pistoia. Ero incuriosito. Diverse volte avevo sentito tesserne le lodi da alcuni insider vinosi, eppure gli incroci erano stati praticamente prossimi allo zero.
Nell’attesa, dal piazzale potevamo intravedere una chiara fotografia della stato vitivinicolo del comprensorio. Da un lato l’onnipresente vivaismo, redditizio e affermato, dall’altro l’abbandono delle campagne, triste e affermato pure quello. E infatti, al loro arrivo, la prima cosa di cui si è discusso è stata proprio quest’ultima, donando ai presenti un po’ di malinconia.
Entrambi i coniugi Lippi provengono dal mondo del vino. Giacomo ha un passato in cantina e in vigna con Fonterenza e Colleoni a Montalcino e un presente con, tra le altre cose, Casale a Certaldo. Marina invece segue da tempi immemori la comunicazione per altre cantine.
Val di Buri nasce quasi per gioco quando lei, un paio d’anni fa, chiede lui di vinificare del Trebbiano per casa, da offrire agli amici.
Avrai già capito che la nuova creatura, nata dalle uve di una vigna presa in affitto da un vicino a Baggio, località dove risiedono, piacque talmente tanto agli amici che risultò automatico cercare altri appezzamenti (adesso gestiscono circa 2 ettari) e iniziare quest’avventura. Tanto, come detto in precedenza, in zona l’abbandono dei vigneti regnava sovrano…
Sì ok, tutto molto bello. Eppure ciò non spiega perché non ho avuto bisogno di berne una bottiglia intera per capire sta benedetta “cifra”, espressione che Giacomo ha usato spesso nel corso del pomeriggio passato assieme.
Ancora un attimo di pazienza.
Dopo la visita a un primo vigneto alle Cavallacce (Casalguidi), abbiamo proseguito con il loro fuoristrada per un ripido sterrato. Il percorso ricordava alcuni sentieri delle montagne liguri. Chiusi, oscuri e propedeutici. Per cosa? Per la felicità.
Magari non la tua, magari non la mia. Certamente la loro, un’altra vigna, l’ultima presa in affitto da un contadino di 90 anni. La più voluta, attesa e inseguita.
Quasi 1 ettaro coltivato a Sangiovese, Trebbiano e altri autoctoni (Canaiolo, Colorino, San Colombano…) in località Forrottoli a Quarrata.
Un anfiteatro naturale dalla vertiginosa pendenza, dal precario equilibrio e dalla massiccia presenza di piante infestanti, siccome abbandonato da diverso tempo.
Perché qualcuno avrebbe voluto prendersi cura di una vigna così: infestata, difficile da raggiungere con quasi qualunque mezzo, impossibile da lavorare se non in ginocchio e che al minimo errore o intensa precipitazione atmosferica sarebbe potuta venire giù?
A quel punto mi si è palesata davanti la cifra di Giacomo e Marina. Di Val di Buri.
Nessuna scorciatoia o trucco, gambe in spalla e pedalare.
Immaginare questa vecchia vigna di Castelluccio (alcune piante hanno circa un centinaio d’anni) tirata a lucido, li emoziona. Mi emoziona.
Dopo averla vista, non può essere altrimenti.
Il pomeriggio è proseguito tra le campagne della zona e poi nella cantina che hanno da poco affittato a Vinacciano.
Vino in bottiglia da farci assaggiare non ne avevano, solo qualche campione di vino recuperato dalle vasche. Del Val di Bure, un trebbiano macerato tosto, schietto e officinale, del Bure Chiara, un rosato di Canaiolo e Sangiovese affinato in damigiana, dell’Eco della Valle, un rosso scarico da merenda, e degli altri vini che ancora sostavano in cantina aspettando di essere giudicati degni di essere imbottigliati.
In realtà anche solo ad ascoltarli parlare, ne intuivo l’intrinseco valore, fatto di sapere enologico e cultura generale, etica e attitudine alla riflessione quanto al sudore. In un mondo del vino naturale sempre più popolato di apparenza e superficialità, dove si ricerca costantemente la novità, spesso a discapito della virtù, Giacomo e Marina simboleggiano quello che cerco in una bottiglia.
Quando il sole era oramai calato, ci siamo dovuti salutare. Ci attendevano per cena. La malinconia era svanita lasciando spazio alla voglia di recuperare in giro qualche loro vino.
Pochi giorni fa ho rivisto per cena i ragazzi della banda e alla cieca ho stappato una bottiglia di Bure Chiara 2018, l’unica bottiglia di Val di Buri che sono riuscito a trovare in attesa dell’uscita delle nuove annate.
Quel bicchiere, contadino e di facile beva, sapeva di frutti di bosco e di conferme, così lieve, così nitido da rassicurare. Semplice.
Val di Buri
Via Baggio Montanina
51100 Pistoia (PT)
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