Esiste una mia Savoia vinicola ideale, che partendo dalla Valle di Susa collega il Canavese, Carema, la Valle d’Aosta tutta, la Francia dal tunnel del Monte Bianco, e poi Annecy e Chambéry.
Certo anche la Svizzera è Savoia: dal tunnel del Gran San Bernardo incrocia Martigny e poi Fully, fino alle sponde del Lago Lemano.
Territorio transalpino, crocevia di montagne, boschi, laghi, morene, comprensori sciistici, formaggi, vitigni autoctoni, suoli, gesti, abitudini e patois.
Terroir.
La mia curiosità verso QUESTA realtà tutta, è cresciuta di pari passo con la passione per il vino. Così raggiungere la Bassa Savoia, ovvero quella parte che contorna il massiccio dei Bauges da Chambéry verso Annecy, altro non è che un prosieguo del mio personale viaggio. Un viaggio a ritroso direi, verso casa. Verso i miei vini.
L’itinerario scelto per questa prima visita passa dal Colle del Piccolo San Bernardo, un delirio di curve che porta dopo circa 3 ore di auto a Chambéry, nella zona di elezione di due uve autoctone davvero interessanti:
- la Mondeuse, rossa, grintosa, tannica, speziata e poco alcoolica, la cui AOP è Arbin;
- la Jacquère, bianca, tesa, floreale, glaciale, per nulla aromatica, la cui AOP è Chignin.
Aggiungo l’Altesse, o Roussette, uva bianca leggermente aromatica, personalissima nel suo esprimersi in bocca e nel tempo.
Per tutti i Domaine in rassegna, i vini assaggiati spaziano dal millesimo ’22 (largo e pomposo) al promettente ’24 che però tutti i vigneron seri del mondo, savoyards inclusi, descriveranno come nefasto. Certamente i jus di quest’ultima annata saranno più pronti, più acidi o comunque meno alcoolici rispetto agli altri. Interessanti, integri i ’23.
Per quanto riguarda i suoli invece, a ridosso dei Bauges risultano particolari perché magri, calcarei e marnosi, più sabbiosi avvicinandosi al Lago di Bourget.
L’accoglienza di Gilles Berlioz al nostro arrivo a Chignin, peraltro il borgo più caratteristico visitato durante questa due giorni, è autentica e sincera.
Aggiungo che la mia dimestichezza con il francese come sempre aiuta, anzi sono dell’idea che una conoscenza approssimativa o nulla della lingua con cui un vigneron, o un vino si esprime, rappresenti un grande limite per il degustatore, vedi la mia esperienza a Madeira da Barbèito.
La Signora Berlioz, rapita dal fascino bohémien di Gabriele ci conduce verso una interessante degustazione, già dalla prima Jacquère, Cri Cri, netta, tesa, digesta.
In nessuno dei vini viene usato il legno, ma plastica e uova in cemento, scelta questa adottata per restituire uno spettro nitido del terroir e del millesimo, ma che mi trova d’accordo solo in parte.
I rossi, Bibi (50% Gamay e 50% Mondeuse) e La Deuse (pura Mondeuse) sono buoni anche se non particolarmente definiti.
Chiudiamo con una bellissima Altesse, Les Christines, sfiorata dall’ossidazione e dal tratto salino importante, quasi tannico.
Nicolas Ferrand del Domaine des Côtes Rousses ci accoglie nel primo pomeriggio. Cantina e nuovo impianto stanno su un declivio delicato, circondato da boschi e mucche. Dietro a queste, le Alpi. Legni grandi e piccoli, anfore. A Nicolas piace sperimentare con i contenitori, i livelli di definizione che raggiungono i suoi vini sono alti.
Così la migliore Jacquère la assaggio da lui: Armenaz ’23 in bottiglia è una tuerie, tagliente e salata, così come la Mondeuse ’24 ancora in anfora, esilissima, fragile, eppure intensa, carica di pepe, (Pineau d’Aunis) montana e persistente.
Segnalo ancora la sua Mondeuse ’23 Coteau de la Mort che ha allure da grande vino e che lascia nel bicchiere un ricordo di Valle d’Aosta.
Ecco, nonostante i terreni tra Alta Savoia e Valle d’Aosta differiscano notevolmente, memore di una affermazione di Giulio Moriondo, decano, professore del vino valdostano secondo cui il territorio conta in misura decisamente inferiore rispetto alla mano, ritrovo in questo angolo di Francia un dinamismo esecutivo, una voglia di sperimentare, una tendenza alla “bio-diversità” che oltre-confine ahimé, ancora latita.
In Bassa Savoia infatti, moltissime aziende recenti hanno scelto un approccio pulito non solo in vigna – dove effettivamente il vino si fa – ma pure in cantina. Questo mentre molte aziende storiche si avviano a una positiva conversione di metodo.
Lo scambio di informazioni tra vignerons è supportato da una associazione di idee, quella dei Pétavins, che raggruppa interpreti e rappresentanti del paesaggio vinicolo savoiardo.
Ancora pochi, giovani, vigneron valdostani hanno a cuore il vino naturale (chiamalo pure come c…o vuoi) e il risultato è sotto alle mie papille: vini di scarsa identità, spesso figli della stessa tecnica omologante, ottenuti in una regione vinicola imprigionata nei soliti gangli della comodità… Sia chiaro, qui non si critica il duro lavoro, ma il metodo!
Arriviamo da Corentin Houillon al tramonto. Un breve giro a bordo vigna, bellissima, ripida, furiosa, contornata dal bosco. Qui la concentrazione di sabbia nel sottosuolo nasconde maggiormente calcare e marna. La cantina di affinamento è in una dimora elegantemente ristrutturata, al piano terreno.
Corentin lavora esclusivamente nel legno, incluse le fermentazioni. Non aggiunge mai solforosa, non lo ha mai fatto. Ha una allure da cane sciolto e sa il fatto suo, mi conquista subito. I suoi vini sono ricchi, l’impatto del tonneau e della barrique, seppure esausti, si sente.
Sono vini che vanno letti in prospettiva, anche se la Jacquère della Montée Furieuse dimostra di sapere reggere alla grande la fermentazione boisée. Una grande Altesse la assaggio qui, sempre bella in piedi, aggancia ma non spancia il centro bocca.
I vini in bottiglia confermano struttura, eccessiva sui rossi, quantomeno sulla Mondeuse, che non mi entusiasma particolarmente.
Chiudiamo con un Force of Nature, Jacquère voilée, splendida, volatile, non acetata. Una goduria per il nostro palato.
Al Domaine des Ardoisières ci presentiamo invece l’indomani, sulla strada per il ritorno in Valle d’Aosta senza alcun preavviso. Siamo a nord-est di Chambéry in uno scenario vinicolo vasto, dolce, delimitato dalle mura dei Bauges. Ci aggreghiamo a un gruppo di amici francesi con cui condivideremo pure due belle bocce.
Il Domaine ha una sala degustazione vera e propria e ci si accorge di essere in una dimensione diversa da quella piccolo-artigianale. Ciononostante i vini di Ardoisières saranno una grande scoperta: lineari, essenziali, puliti, naturali seppure su larga scala. E qui una rintuzzata alle cantine medio-grandi valdostane mi sento di darla: passate per una visita da Brice Omont, ha una produzione di grandi vini montani, elaborati per sottrazione, che supera le 100.000 bottiglie. Vini veri, da enologia di pregio.
Neppure i prezzi alti mi scoraggiano perchè gli assaggi sono ottimi, la linea “négoce” differisce giustamente dalla linea “domaine” e sticazzi, anche perché Silice, pur essendo una Jacquère di negozio da uve bio, ci mette subito a nostro agio: fresca, aerea, elegante.
Quartz è una grande Altesse, ha un sorso acquoso, nordico, salato, ha presa tannica delicata, allunga benissimo. Il vino non fa una piega, ripaga in tutte le sue componenti.
Così come Amethyste, assembleaggio 50 e 50 di Mondeuse e Persan: belli insieme, vino goloso e di grande beva, senza perdere complessità.
Un improbabile pranzo in un ramen bar segna la conclusione di un viaggio, ricco di riflessioni e paragoni inevitabili con la mia Valle d’Aosta.
Coesione, unità di intenti, approccio naturale, uve autoctone, la Bassa Savoia comincia a attirare degustatori attenti da tutto il mondo. Un punto di vista simile non può che portare a risultati positivi, non solamente turistici e economici, ma anche ecologici, paesaggistici, umani.
Quella savoiarda è rivoluzione culturale, i cui semi gettati da Michel Grisard, Gilles Berlioz e Dominique Belluard sono stati largamente raccolti da una generazione di giovani, e non, che crede fermamente nei princìpi sopra elencati e li porta avanti con dedizione e innovazione.
Anche la mia Valle d’Aosta si muove. Il movimento naturale è sano, anche se non organizzato. Non posso fare a meno di pensare che una associazione simile a quella dei Pétavins permetterebbe una maggiore comunicazione tra vigneron “reazionari”, creando scambio di vedute, opinioni, metodi. La coesione data da un movimento organizzato potrebbe attirare nuovi giovani disallineati e “grandi vecchi” curiosi.
Pensiamoci, ragazzi. United, we stand!
Nato ad Aosta nel Marzo del 1977, passo l’infanzia in skate. Poi snowboard, mountain-bike, trail… Musica, sempre, viaggi e contaminazione pure. Nel 2006 una Coulée de Serrant fa nascere in me l’amore per il Vino. Mi informo, assaggio, esploro, leggo e scrivo. Studio! Con ahimè pochissime occasioni di scambio e come sempre, senza indossare divise. Dal 2019 vendo la mia idea di Vino in Valle d’Aosta. Ma in fondo l’ho sempre fatto: raccontandolo agli amici, annoiando Francesca mia moglie, facendo scappare i miei figli, Bianca e Dante! Proprio la condivisione insieme alla natura del gusto, sono i cardini del mio approccio. Che è essenzialmente musicale, non necessariamente tecnico. Sicuramente emozionale e positivo. In una parola: hardcore!
A pensare che Mondeuse e Refosco sono la stessa uva quasi non ci si crede.
Sai che non lo sapevo?
Ora mi hai incuriosito con il Refosco!