Eccoti finalmente la seconda parte di “I vini OSSIDATIVI, tra Sicilia e Sardegna“, il racconto della serata condotta da Matteo Gallello e Vasco Ciuti con protagonisti Davide Orro (Vernaccia di Oristano), Piero Carta (Malvasia di Bosa) e Nino Barraco (Marsala pre-British). Perciò non indugiamo oltre e andiamo a cominciare!
Piero Carta e la Malvasia di Bosa
Piero ha cominciato raccontando la sua storia, ma avendotene già parlato qui, farò un riassunto molto veloce. Nasce a Cagliari, seppure la sua famiglia fosse di Bosa, un paesino molto caratteristico della provincia di Oristano in cui, tempo fa, tutte le famiglie possedevano un pezzo di terra e producevano la tradizionale Malvasia di Bosa in stile ossidativo. Per questo motivo anche suo padre negli anni ‘80, nonostante vivesse a Cagliari, decise di portare avanti questa tradizione impiantando un piccolo vigneto.
L’amore di Piero verso la viticoltura arrivò però molto dopo, esattamente nel 2011, quando iniziò a curare la vigna al posto del padre malato. Neanche a farlo apposta, nel 2012, il disciplinare della Malvasia di Bosa fu modificato aprendo a nuove tipologie di vino, per esempio spumante, semplicemente per inseguire le richieste di un mercato dove il vino ossidativo faticava a essere venduto… Insomma, anziché puntare sulla giusta comunicazione di questa autentica perla enologica, si decise di virare su altre tipologie di prodotto più “modaiole”.
“A quel punto ho detto: ok, per me diventa una missione personale, politica, e quindi farò solo esclusivamente la Malvasia in stile ossidativo. Perché riconosco solo quella come appartenente alla mia tradizione… E per me la tradizione e la cultura della mia terra sono fondamentali.”
Poi ha spiegato che i requisiti che deve avere l’uva sono più o meno gli stessi della Vernaccia, acidità e grado zuccherino (vendemmia tardiva). Molto importanti anche le rese: nel disciplinare sono consentiti fino a 60 q/ha (con proposte per arrivare fino a 120 q/ha), ma ritiene che per ottenere un vino interessante non si devono superare i 30 q/ha. E infatti nelle annate migliori spesso sono addirittura inferiori. La coltivazione avviene a Guyot su suoli calcareo-marnosi, perfetti per donare una grande acidità, in questo caso solo con l’utilizzo di rame e zolfo, e molto importante è ovviamente anche il suo lavoro manuale che effettua da solo sui suoi 2 ettari.
In cantina ha scelto di lavorare senza interventi, a parte bassissime dosi di solforosa: “La mia coltivazione è naturale, ho scelto questo percorso di avere un bassissimo impatto sia in campagna che in cantina. Per cui più che naturale direi come si faceva prima, prima che esistesse tutta l’enologia moderna.” Questo è anche il metodo migliore per sentire le differenze tra i millesimi. Nonostante delle note molto precise di frutta secca con varie declinazioni che caratterizzano questo vino (mandorla, mallo di mandorla, noce…), ne sono un chiaro esempio le ultime sue due annate prodotte, la 2020 molto secca e salina e la 2021 che invece conserva un residuo zuccherino molto più pronunciato. Tradizionalmente era proprio così, con questo abboccato che la rendeva ancor più piacevole da bere.
Ecco, starai pensando che la Malvasia di Bosa sia un vino da bere a fine pasto, magari accompagnato da qualche dolcetto, vero? E invece no. Pensa che per i bosani questo era il vino dell’aperitivo.
“Si dice, este unu inu de chistionade, cioè un vino per parlare. Perché è il vino della socialità: vieni a casa mia e io, anziché il caffè, ti offro la mia Malvasia. Quindi un aspetto sociale importantissimo. Per le sue caratteristiche ha un retrogusto nasale che, mentre parli, ti risale e ne acquisisci tutti i sentori.”
Malgrado attualmente si sta riprendendo a bere la Malvasia ossidativa, lentamente eh, un dato allarmante è che sono rimasti solo in 3 produttori, di cui uno sta per mollare a causa dell’età: è per questo Piero sente il peso della responsabilità!
“Perché per me la tradizione è una conseguenza del lavoro del mio territorio e della mia famiglia. Per cui ho sentito l’esigenza, forse anche grazie ai miei studi e al percorso che ho già deciso di intraprendere, di valorizzare il territorio attraverso le sue specificità. Ho visto nella tradizione l’elemento futuro per dare valore al nostro territorio, per dare voce al nostro territorio.”
Se ha chiamato la sua Malvasia “Filet” è perché questo è il nome di un centrino tipico di Bosa che sua nonna tesseva, un’altra delle importanti tradizioni del territorio.
A differenza del Marsala, un vino iconico a livello nazionale, e della Vernaccia di Oristano, che invece era conosciuta in tutta la Sardegna ma non solo, “la Malvasia ha sì avuto un’importanza storica, tradizionale, culturale ed economica all’interno della nostra comunità, ma non si è mai esportata.” Perché? Perché fino agli ‘70 la maggior parte di questa produzione era per uso familiare. Il primo a credere fortemente nella Malvasia di Bosa fu Giovanni Battista Columbu, insegnante di Olzai che si innamorò del territorio contribuendo alla redazione del suo disciplinare di produzione, nonché tra i primi produttori a imbottigliare.
Nonostante negli anni le occasioni per farla conoscere ci siano sicuramente state, per esempio la presenza nel docufilm di Jonathan Nossiter, “Mondovino”, di Giovanni Battista Columbu ad aprire e chiudere la pellicola, gli abitanti di Bosa non furono in grado di cogliere la palla al balzo e alla fine tutto cadde in sordina, nell’oblio causato dal già menzionato cambio di disciplinare.
Beh, oggi, è ancora presto per parlare di rinascita, ma l’importante secondo Piero è il provare a instillare un seme: “Quando nascono nuovi produttori, gli amici mi chiedono se abbia paura della concorrenza? Io dico no, non temo la concorrenza, io la voglio! Vorrei che ci fossero altri 50 produttori come me che facessero un’ossidativo! Perché così il territorio verrà riconosciuto a livello nazionale e internazionale, si muoverà tutta quella catena che poi fa girare l’economia e quindi fa continuare, alimenta questo tipo di lavoro.”
In definitiva è questo il suo pensiero, recuperare un vino tradizionalmente molto importante per la comunità di Bosa così da rilanciare tutto il territorio. Un progetto coraggioso e, senza dubbio, difficile, ma in cui vuole credere fortemente. Tu, da oggi, quando berrai una bottiglia di Malvasia di Bosa ossidativa, ricorda solo di non soffermarti alla sua straordinaria bontà, ma pensa anche alla tradizione e al territorio che ci stanno dietro, lasciati trasportare in una vecchia cantina in compagnia di amici, tra chiacchiere, spensieratezza e risate.. Solo così riuscirai a coglierne appieno l’anima.
Nino Barraco e il Marsala pre-British
“Per un marsalese parlare di pre-britannico, o pre-british, come l’abbiamo chiamato noi, è una cosa molto forte perché parte da lontano e va nell’intimo. Perché questo è un vino che ci hanno lasciato i fenici qualche migliaio di anni fa.”
Ha iniziato così Nino Barraco a parlare del vino ossidativo prodotto storicamente a Marsala. Quindi arrivarono gli inglesi che, per questioni di gusti, o per poterlo trasportare in sicurezza, iniziarono a fortificarlo. Nel 1773 successe poi che la produzione si spaccò: solo l’industria vitivinicola ebbe i mezzi per produrre il “nuovo” Marsala, mentre i contadini, pur sempre fieri della loro artigianalità, avendo difficoltà a reperire l’alcol, si limitarono a produrne le basi – una lavorazione che avveniva all’interno dei malaseni, i magazzini del vino – per venderle successivamente ai grandi produttori tramite i mediatori.
“E qui è bello pensare che per centinaia di anni, dal 1773 al 1980, anno in cui nasce il vecchio Samperi di Marco de Bartoli per la prima volta, mai questo vino era stato attenzionato, nessuno l’aveva mai imbottigliato. Io per anni mi sono chiesto il perché. Cioè, perché un vino così buono, di cui tutti erano orgogliosi, che si facevano la botte quando nasceva un figlio e poi la davano quando si sposava per iniziare un proprio percorso in un’altra casa, che era il vino dell’accoglienza, che si offriva quando arrivavano gli amici, non avesse mai visto la bottiglia?”
La storia racconta che le cantine sociali, pur avendone migliaia di ettolitri, non lo imbottigliarono mai, iniziando addirittura negli anni ‘90 a produrre vini, spesso con vitigni internazionali, che col territorio c’entravano nulla. La spiegazione si è dato è che fosse anche una questione di linguaggio. Nel senso che il pre-british era il vino del contadino e quindi che non riusciva neanche a essere raccontato se non in dialetto, mentre il Marsala “industriale” era un prodotto che rappresentava la nobiltà, le persone che sapevano parlare in italiano.
“Il fatto che sia stata la pecora nera di una famiglia perbene che l’abbia imbottigliata per prima la trovo fantastica, no? Perché De Bartoli viene da famiglie dell’industria vitivinicola, Pellegrino, di proprietari di banche, quindi molto benestante.”
Poi Nino ci ha spiegato che la grande crisi del Marsala iniziò negli anni’70, quando l’aumentare del numero di produttori portò a un calo della qualità e iniziarono a comparire le prime etichette di Marsala all’uovo, alla mandorla, alla fragola e così via. Sebbene queste tipologie furono successivamente escluse dal disciplinare, ma solo perché i “grandi” avevano già un marchio da spingere, le aziende più piccole, non avendo alcun potere economico, finirono per soccombere piuttosto in fretta.
A questo punto Nino ci ha descritto come ottiene gli Altogrado, i suoi ossidativi pre-british. Partendo da suoli calcareo-marnosi e da basse rese per ettaro, le uve sono raccolte al massimo surmature (circa 21 gradi Babo) per ottenere un vino secco. Un piccolo residuo zuccherino può anche starci, ma l’importante è che si ottenga un prodotto da pasto o da aperitivo, non completamente dolce. Dopo qualche ora di contatto sulle bucce e la fermentazione, affina per almeno 7 anni in botte di castagno di cui solo i primi 2 anni con colmatura. Soffermandosi sulle tempistiche di affinamento ci ha quindi rivelato che la stessa è dovuta solamente agli assaggi e quindi a una virata percepita verso il settimo anno, momento sino al quale ha sempre ritenuto che a quei vini mancasse qualcosa. Cosa che sta succedendo anche con gli altri vitigni che, dopo il Grillo e il Catarratto, ha cominciato a vinificare con lo stesso stile: Pignatello e Zibibbo.
A differenza della Vernaccia di Oristano e della malvasia di Bosa, a Marsala non si è mai ricercata la flor, mentre, per quanto riguarda la tecniche di vinificazione, ho capito che se ne possono usare diverse. Se qualcuno usa il metodo Solera, o il Perpetuo, lui ha invece scelto di ottenere i suoi ossidativi da una singola vendemmia. Perché? Perché, riconoscendone l’importanza, gli è sempre piaciuto indicare l’annata in etichetta, come un Barolo o un Brunello. E poi anche perché, a differenza di Marco De Bartoli con il Vecchio Samperi, non gli è stato possibile trovare delle vecchie riserve da utilizzare nel metodo Solera.
Assaggiando i suoi due Altogrado, ho poi finalmente compreso cosa intendesse per tradizione, un pensiero dinamico e addirittura ineluttabile. Dinamico perché ogni generazione può aggiungervi nuove conoscenze, ineluttabile perché è un qualcosa da cui provieni e fatichi a fuggire. Oggi si parla di pre-british, ma risulta lapalissiano che i vini non siano gli stessi del 1700. Non bisogna inoltre dimenticarsi dell’unicità conferita dal singolo artigiano. Nel senso che ciascun produttore intraprende un percorso differente e lo stesso Nino, per esempio, cerca ogni anno di mettere qualcosa in più nei suoi vini.
“Cioè, per essere un po’ più chiari, quando tu inizi a fare vino a 28 anni, 29 anni, insomma, in una sola bottiglia vuoi raccontare tutta la storia del territorio. Man mano che invece sono arrivate le altre etichette, ho avuto la possibilità di raccontare cose diverse del mio territorio, quindi mi sono liberato da un peso che mi sentivo addosso… Quando nel 2004 ho iniziato a fare Catarratto, Grillo e Nero d’Avola raccontavo cosa dovevano essere queste vitigni secondo me, ma gli mettevo dentro anche quella che era la storicità del territorio, esagerando forse, cioè facendo vini che forse erano un po’ troppo barocchi, troppo pieni di sé. Quando poi nel 2009 iniziai a fare l’Altogrado, mi liberai di una prima componente e con il Biancammare, ex Vignammare, nel 2012, di un ulteriore racconto che volevo portare avanti. Adesso in qualche modo per ogni mia etichetta esprimo qualcosa di diverso, un contenuto diverso.”
Oggi il 90% circa della produzione di Marsala va a finire nell’industria alimentare (gelati, Simmenthal, ecc.) e solo poche cantine continuano a produrre un vino di qualità “interessante”. Per quanto riguarda i pre-british sembrerebbe invece che “negli ultimi anni si stanno sprecando più parole che bottiglie”, nel senso che tra il film Pre-British di Andrea Mignòlo, il libro Il futuro di Marsala di Giorgio Fogliani e le diverse serate dedicate alla tipologia, si è cominciato a parlare tanto di questi vini, ma le bottiglie prodotte sono sempre molto poche. Però è anche vero che qualcosa sta iniziando a muoversi e infatti l’Azienda agricola Barraco, che ha sempre creduto tanto in questo progetto, ha da poco ampliato la cantina con una nuova ala di 200 metri quadri per il solo stoccaggio degli ossidativi.
Bene, queste erano le storie raccontate dai vignaioli e… I vini? Il fil rouge degli assaggi è stato senza dubbio il forte carattere Mediterraneo che usciva fuori sia grazie a una marcata mineralità che al gioco tra la componente acida e quella sapida.
Andando un pochino nel dettaglio delle etichette, sappi che la Vernaccia di Oristano 2013 della Famiglia Orro mi ha portato indietro nel tempo ricordandomi le vecchie bottiglie di Vernaccia bevute in famiglia nelle festività. Aveva proprio quegli stessi sapori: un sorso profondo e ricco, ancora teso seppure piuttosto caldo.
Il Filet 2021 della Cantina Carta invece mi è parso più avvolgente e morbido. Se subito se ne percepisce la componente zuccherina, successivamente la salinità la fa da padrone equilibrando il sorso. Carattere, forza e dolcezza si sposano alla perfezione come in un abbraccio ricevuto da una persona cara, consolatorio da una parte e donarci energia e coraggio dall’altra.
Passando invece ai pre-british di Nino Barraco devo dire che entrambi mi hanno stupito per la loro grande eleganza e complessità, anche se in maniera diversa. Se il Catarratto “Altogrado” 2016 si donava subito, esplodendo in bocca ma dando però l’impressione di rilassarsi un po’ sul finale, il Grillo “Altogrado” 2016 mostrava un carattere e una forza quasi senza fine. Davvero un grandissimo vino.
Infine il Vecchio Samperi di Marco de Bartoli, come sempre, è risultato una bella emozione. Il sorso, di grande profondità e finezza, manteneva ancora freschezza e vitalità. Ovviamente anche qua la componente sapida si faceva sentire a gran voce! Ma d’altronde stiamo parlando di vini ossidativi…
Insomma, lasciami dire ancora che questa è stata una delle serate di degustazione più entusiasmanti a cui ho partecipato nell’ultimo periodo. Ascoltare le parole di Nino, Piero e Davide è stato prima di tutto un grande piacere, ma anche tanto didattico. La possibilità di immergersi nella storia e nelle tradizioni di tre diversi territori un qualcosa di magico. Perciò voglio ringraziarli col cuore, lo stesso che mettono nel produrre i loro vini, per questo splendido viaggio.
Un grandissimo grazie va poi anche a Matteo, per me uno dei migliori divulgatori del mondo del vino italiano – non esiste una sua serata dalla quale non mi sia sentito arricchito, dal punto di vista enoico, ma soprattutto culturale -, a Vasco, se a Cagliari si organizzano eventi tanto interessanti il merito è anche (molto) suo, e ai ragazzi di Vignaioli Cagliari, per l’impegno, che non è scontato, che mettono ogni anno nell’organizzazione della loro fiera/festa e degli eventi collaterali come questo.. Grazie, grazie, e ancora grazie.
Beh, se sei arrivato a leggere sino a qua, scommetto ti sarai appassionato alla “tipologia”… Perciò sarai anche pronto a far conoscere ai tuoi amici tutto ciò di cui abbiamo parlato in questi due articoli, vero? Sei pronto a metterti in gioco? A dare una mano per il futuro di questi splendidi territori?
Cagliaritano DOC classe 1984, Esperto Assaggiatore ONAV e consigliere per la delegazione cittadina della medesima, mi son avvicinato al mondo del vino circa una decina di anni fa, innamorandomi fin da subito del movimento “naturale” e in seguito anche delle fantastiche persone che lo popolano. Galeotto fu un seminario di degustazione in 4 serate tenuto a Cagliari da Sandro Sangiorgi, del quale, pur senza capirci a quel tempo una benemerita mazza, ancora ricordo, per filo e per segno, alcuni degli splendidi vini assaggiati. Mi colpirono per la loro istintività, di come allo stesso tempo riuscissero a essere imprevedibili e conviviali. Un sogno? Aprire una piccola enoteca con mescita. Dove? A Cagliari. E dove sennò.