Che quel lunedì sarebbe stato un giorno speciale perché, dopo non so quanto tempo, si riuniva la “vecchia banda”, te l’ho già raccontato nel post dedicato alla visita in cantina da Giacomo e Marina, i ragazzi di Val di Buri. E ti avevo anche avvisato che più avanti ti avrei parlato dell’esperienza a cena dal Moi di Prato, l’omakase di Francesco Preite. E infatti eccoci qui.
Francesco, semplicemente, è uno dei più grandi amanti del Giappone che abbia mai incontrato. Pensa solo che per sublimare l’arte che spinge da dietro il bancone del suo locale di Viale Piave ha compiuto più di 70 viaggi nella terra del Sol Levante in circa 20 anni, per passione ma soprattutto per lavoro. E non accenna a smettere, manco per l’anima.
Come ci siamo finiti a pranzo a mangiare sushi nell’omakase di uno chef italiano a Prato?
Organizzandoci per la giornata assieme, siamo stati tutti concordi che il modo più consono per passarla fosse quello di visitare una nuova cantina e provare a cena un qualcosa di diverso dal solito. Qualcosa che nessuno di noi avesse mai sperimentato sul suolo italiano (anche se ciascuno aveva già avuto un’esperienza simile in Asia).
Siccome poco tempo prima avevo sentito parlare del Moi Omakase non ricordo dove e in Liguria di locali del genere non ne esistono (o ahimè non raggiungono neanche lontanamente questo livello…), quando l’ho proposto non ci sono state obbiezioni e ho solo dovuto compilare il form online.
Che cos’è un omakase?
La parola omakase, letteralmente “lascio a voi“, è usata comunemente nei ristoranti giapponesi quando il cliente lascia allo chef la scelta del menù ed è diventata famosa nel mondo con la diffusione del Sushi indicando un tipo di locale dove i bocconi vengono serviti al bancone secondo la sensibilità del “maestro”. Negli omakase non è contemplato il servizio esclusivo di sushi, ma anche di pietanze grigliate, bollite e preparate con altre tecniche di cottura. Sfiorando la poesia, la Guida Michelin lo ha definito come “un compagno spirituale e il contrappunto al kaiseki (un elaborato pasto giapponese a più portate considerato una forma d’arte e altamente ritualizzato)”. Infatti, basta pensare alla formazione infinita dello chef (l’itamae) e del personale, alla precisione del loro lavoro, alla loro incredibile concentrazione e alla loro quiete.
E la bellezza dei coltelli? Come della qualità e ricercatezza del cibo, non ha senso parlarne tanto è irrefutabile.
Sappi solo che gli “intenditori” di sushi ordinano raramente da un menù e che tradizionalmente i sushi bar in Giappone non li avevano nemmeno.
Personalmente, il contrasto tra la meticolosità, la continua ricerca della perfezione dei ristoranti giapponesi e l’immagine imperfetta rappresentata dalla maggior parte delle copie situate nel nostro paese mi ha sempre tenuto lontano da questa forma di cucina. Francesco, quella perfezione la persegue tutti i giorni dentro e fuori dal suo “tempio” e quel lunedì, insieme a sua moglie, che danzava di supporto tra noi e il bancone, ha ribaltato la mia visione, regalandoci una fantastica esperienza, esauriente quanto confidenziale.
Le regole da seguire per affrontare una cena al Moi Omakase sono poche e semplici, non ti spaventare. Tutto quello che è essenziale viene comunicato al momento della prenotazione. Non ti stupirai se ti dico che gli interni del locale esprimono un minimalismo di matrice orientale e che la dozzina d’individui che il bancone di cipresso può ospitare cenano sempre in un unico turno alle 21,00. All’ingresso è presente anche una zona bar che, finita la pandemia, permetterà di sorseggiare un bicchiere, magari di sake, prima o dopo lo spettacolo.
Il menù si sviluppa su 17 bocconi ricavati dal meglio che Francesco trova sul mercato, il costo è di 70 € a persona escluse le bevande. Si inizia e si finisce con un assaggio caldo, zuppa o brodo. Il cuore della degustazione è un balletto fatto di nigiri in stile Edomae e altre prelibatezze giapponesi a volte contaminate dalle radici dell’itamae toscano. Capesante di Hokkaido, branzino di Porto Santo Stefano, ricciola giapponese, gamberi rossi di Mazara, sugarello pescato a La Spezia, wagyu e caviale… tutto perfettamente bilanciato e studiato per massimizzare la resa dell’esperienza senza uscire dai dettami della filosofia originale nipponica. I “condimenti”, come la salsa di soia e lo zenzero, sono in gran parte autoprodotti e in tempi brevi Francesco conta di avviare un’azienda agricola per coltivarsi i vegetali da solo. Chiude la cena un dolce tipico del Sol Levante, nel nostro caso il castella, un pan di spagna che prende in nome dal portoghese pão de Castela (pane della Castiglia), importato in Giappone da marinai e missionari nel XVI secolo.
Una piccola carta dei vini, dai ricarichi rapportati all’esclusività della proposta e composta da una trentina di etichette naturali (bolle, bianchi e rosati) che dimostrano personalità e padronanza della scena enologica naturale attuale, si accompagna a una selezione di sake altrettanto minuta e ricercata (al momento della mia visita, a causa del momento storico e della difficoltà di reperire alcune referenze, quest’ultima non mi è stata presentata ed era disponibile un solo sake). Ci si diverte a partire dal Vermentino “La Treggiata” de Le Calle servito al bancone a 30,00 euro.
Adesso che ti ho incuriosito, a mio avviso non hai troppe possibilità. O ti sveni e prendi un volo per il Giappone, impresa che peraltro considerata la pandemia non è proprio immediata, o aspetti la riapertura, prendi la macchina e vai a trovarlo al suo Moi Omakase. Io ho già scelto. Tu che ne dici?
Moi Omakase
Viale Piave, 10/14
59100 Prato (PO)
+39 0574 065 595
www.moiprato.it
Menu degustazione, 70,00 euro
PS: per dovere di cronaca, devo dirti che in Italia i locali realmente paragonabili al Moi si contano sulle dita di una mano e che spero di poterteli raccontare non in tempi biblici. Inoltre, se ne hai qualcuno da suggerirmi, sai come fare.