Di Corrado Dottori, di sua moglie Valeria e della loro creatura agricola, La Distesa (Cupramontana – AN), ne hanno raccontato in molti, probabilmente troppi. Sull’onda della novelle vague del vino naturale persino la RAI, a mio avviso senza crederci troppo e credo per illimpidire l’immagine di alcuni personaggi ritratti nei Signori del Vino, gli ha fatto visita nell’episodio dedicato alla viticoltura marchigiana. Inoltre, lui stesso si è messo a nudo in due libri vibranti come pochissimi ai giorni nostri: “Non è il vino dell’enologo – Lessico di un vignaiolo che dissente” e “Come vignaioli all’inizio dell’estate – L’ecologia vista da una vigna”, entrambi editi da DeriveApprodi.

È iniziando a leggere il secondo che poco tempo fa, completamente rapito, ho sentito il bisogno di andare a trovarlo, di camminarne la terra, di ringraziarlo per gli illuminati punti di vista condivisi. Che poi negli anni molti suoi vini mi abbiano entusiasmato (Gli Eremi 2014 e Le Derive 2013 per esempio, due millesimi su cui non avrei scommesso una ceppa per differenti motivi), è solo la conferma di quanto abbia intravisto su carta stampata.

La Distesa Cupramontana visita in cantina Vigna

Insomma, dopo un breve scambio di mail, nonostante le 6 ore di strada che quel giorno ci separavano da Cupramontana, alle 11,00 dell’ultimo venerdì agostano, io e Pula abbiamo suonato il campanello della storica cantina costruita agli inizi del 900 e acquistata dalla famiglia di Dottori nel 1935. Ad accoglierci abbiamo trovato Lisa, fidata collaboratrice  membro della famiglia allargata de La Distesa. Corrado, un po’ “primula rossa”, ci ha raggiunto sul finale della visita.

Di seguito trovi un breve drone video che spero possa regalarti un pezzettino dell’incanto che abbiamo provato passeggiando in vigna (sì, la musica è degna delle scene più melense di Forrest Gump ma a mio avviso sottolinea splendidamente la bellezza del paesaggio).

Adesso, per non essere uno dei tanti, nonché porgere il giusto tributo alla portata di scrittore e vignaiolo di Corrado, invece di raccontarti con parole mie lo svolgersi della visita in cantina a La Distesa, ho pensato di riportare, in una finta mini-intervista, alcuni estratti delle sue opere, certo che alla fine dell’articolo vorrai correre a incontrarlo (oltre che ad acquistarle). In quel caso scrivigli a cantina@ladistesa.it. Ah, non quando è in vendemmia: Lisa candidamente mi ha confermato che diventa abbastanza inavvicinabile.

Quando hai deciso di diventare un vignaiolo?

Decido di diventare un vignaiolo che è novembre. Sto in cima a un ulivo in mezzo a una luce scintillante, come solo d’autunno.  
Ề un attimo. Mentre raccolgo le olive da un albero ultracentenario, della varietà chiamata carbonella, d’improvviso, mi trovo a riflettere seriamente sulla possibilità di cambiare radicalmente la mia vita. 
Non più giacca e cravatta, non più quotidiani signorsì a grigi dirigenti di banca, non più transazioni finanziarie dalla dubbia moralità, non più relazioni fredde, vuote, anonime, non più una Milano decadente e decaduta di cui ho ormai assorbito con veemenza e disperazione ogni ultimo sussulto vitale.
No. Quello di cui ho bisogno è una distesa di colline, ampi spazi da respirare, un cane bianco. Pura libertà di immaginare, progettare, costruire. Semi da lanciare nel vento, alberi da piantare, da veder crescere, curare. Quello di cui ho bisogno sono segni tangibili, riconoscibili, concreti del mio rapido passare in questa vita, su questo mondo, per questa terra.
Cosi, proprio mentre compio il gesto naturale di sfrondare rami per far cadere le olive nelle reti sottostanti, tutto mi appare chiaro, per la prima volta. La mia passione per il vino, l’amore troppo spesso taciuto per la mia terra, il sogno ben nascosto, eppure sempre presente, di una vita che proceda secondo regole differenti.
In quel preciso momento ignoro del tutto il «come». Ma mi è perfettamente chiaro il «perché», Come se tutta quella infinita mancanza di senso che ha accompagnato la mia adolescenza e la mia giovinezza di colpo fosse svanita. Come se tutta quella sensazione di vuoto che mi è parsa dominare gran parte della mia vita fosse stata spazzata via dalla distesa di colline che ho innanzi agli occhi, scintillante di luce autunnale, spazzata dal freddo vento di tramontana.
L’aria punge il viso. Mi siedo sulla terra fredda a guardare le vigne, ormai quasi prive di foglie. Respiro. Alla sera, nel letto, la mente viaggia verso quella che sarà una vita nuova. (Non è il vino dell’enologo – Lessico di un vignaiolo che dissente, Corrado Dottori, DeriveAprrodi srl, 2013)

La Distesa visita in cantina Vigna Corrado Dottori Cupramontana

Hai voglia di raccontarmi il tuo terroir?

Il mio terroir è una piccola striscia di terra rivolta a mezzogiorno. Lì dove milioni di anni fa c’era il mare, oggi c’è una distesa di colline che si inseguono sinuose. Alle spalle c’è Cupramontana, di fronte Staffolo, in lontananza Cingoli, mentre netta si staglia la figura del monte San Vicino a segnalare la vicinanza degli Appennini.
La terra è un’argilla multiforme: zone di vera e propria creta bianca, dove domina il calcare, si alternano a lingue di arenaria giallastra e di marne azzurre, specie più in profondità. Su questo suolo, compatto e povero di sostanza organica, nascono vini potenti, strutturati e salati.
Qui si è sempre fatto vino. La storia della viticoltura potrebbe essere una narrazione affascinante e parallela alla storia ufficiale del nostro paese. Dai romani al Medioevo, passando attraverso la storia del monachesimo e dell’agricoltura di sussistenza, fino alla rivoluzione industriale e al nostro tempo contemporaneo, ogni stagione ha avuto il suo vino, la sua organizzazione aziendale, i suoi metodi.
Il terroir non è un ideale ma un dato storico mutevole. E suolo e microclima; è vitigno e tecnica colturale; è fatto economico e culturale che segna l’identità locale in modo profondo.
Il rischio è che diventi localismo becero e chiuso, quando la sua potenza sta invece nella ricchezza delle diversità, sorta di straordinario meticciato culturale.
Non ho mai capito perché in primavera solo in questa striscia di terra, che appartiene alla mia famiglia da circa ottant’anni, fiorisca un prato di tulipani rossi selvatici. Nelle vigne vicine no. A sinistra qualche fiore bianco, in mezzo alla terra lavorata in modo convenzionale. A destra principalmente fiori gialli, su un terreno a conduzione biologica come il mio. Non so se è da considerarsi fenomeno del terroir. Forse sì.
Certamente da sempre questo è stato considerato a Cupramontana un cru naturale. Si ritrova nei documenti storici e nelle narrazioni orali. Zona «da sole», priva di ristagni di umidità. Con un’ottima ventilazione e una buona altezza sul livello del mare a garantire escursioni notevoli fra il giorno e la notte.
Si vendemmia prima che altrove, in contrada San Michele. E i vini sanno di erbe aromatiche e scorze d’arancio. Camminarci è uno spettacolo, specie in quelle giornate
terse che esaltano i profili delle colline, amplificando gli spazi e disegnando i contorni di un ambiente agricolo dove ancora è tangibile il paesaggio della mezzadria marchigiana: i piccoli appezzamenti, l’alternarsi di colture diverse, le residuali zone boscose, le innumerevoli abitazioni contadine. La classica azienda multifunzionale tipica della mezzadria, spesso quasi del tutto autosufficiente, dove si coltivavano al tempo stesso seminativi, ortaggi, vigna e oliveto, dove nelle stalle un paio di bestie della razza marchigiana scaldavano gli ambienti e qualche maiale garantiva l’apporto annuale di grassi e carne a buon mercato, ha preservato in queste vallate, nonostante tutto, una biodiversità invidiabile.
Se San Michele è il cru di questo terroir, Cupramontana è il village. Un paese che avrebbe potuto essere la Chablis d’Italia e non lo è stata. Per le troppe occasioni perdute, per certi casi della storia, per un’antropologia tutta particolare.
Eppure qui il vino, e specie quello bianco, ha un’importanza ancora oggi difficile da riscontrare altrove, scolpendo il carattere degli abitanti di questi luoghi. Difficile convincere un vero cuprense a bere altro che il Verdicchio, e in particolare il Verdicchio di Cupramontana. Vitigno eccezionale, unico, capace di dare splendide basi spumanti, grandi vini bianchi secchi da invecchiamento cosi come ottimi vini passiti, il Verdicchio a Cupramontana si esprime in mille modi diversi, a seconda dei versanti, delle esposizioni, dei terreni, delle stagioni. (Non è il vino dell’enologo – Lessico di un vignaiolo che dissente, Corrado Dottori, DeriveAprrodi srl, 2013)

Cos’è per te la biodinamica?

Nel mio lavoro di agricoltore mi imbatto piuttosto rapidamente nella biodinamica. Non poteva essere altrimenti.
Data la mia formazione classica e «filosofica» resto subito colpito dall’approccio steineriano all’agricoltura. Cerco di filtrarlo attraverso la mia sensibilità, molto lontana per tanti versi da quella visione del mondo. Mi iscrivo all’Associazione Biodinamica, cerco di capire come funziona il calendario di Maria Thun, imparo a fare il preparato 500 (il cornoletame) in un’azienda dell’urbinate.
Un giorno da noi viene Stefano Bellotti, uno dei padri della biodinamica in Italia, per un seminario. Proietta diapositive, cammina con noi nei vigneti. Spiega. Chiarisce. Sono affascinato. Tento di approfondire. Cristallizzazioni sensibili. Trigoni astronomici. I preparati.
Eppure… Eppure non sono convinto fino in fondo. Mi accorgo del rischio che corre chi segue I’idea biodinamica in modo ossessivo. La costruzione di un sistema, di un modello, di un mondo alternativo a quello «convenzionale». E però altrettanto chiuso, autoreferenziale, ideologico. Al tempo stesso mi accorgo che se mi interessano la critica e la confutazione del modello agricolo chimico e industrialista non riesco però a liberarmi del tutto da una razionalità materiale che male si sposa col puro spiritualismo biodinamico.
A queste riflessioni si affiancano gli assaggi, sempre più numerosi, di vini biodinamici, biologici, naturali. Ne viene la conferma che sono il grande territorio e la grande vigna a contare. Una banalità, certo. Mi convinco, pero, che fossilizzarsi troppo sul «metodo» possa far perder di vista il «fine», Che per me, l’interpretazione del magico legame fra terra, vite e uomo. Capisco che non voglio fare vini biodinamici. Voglio fare i miei vini e che per far questo la biodinamica suggerisce alcune pratiche avvincenti, sostenibili e, soprattutto, funzionali.
E la vigna a rispondere. Col suo aspetto, le sue forme, la sua vegetazione. I tralci si distendono meglio, le foglie ingialliscono dopo, il vigneto appare come un elemento vivente che è solo parte di un ambiente naturale fatto di erbe e insetti e animali. E camminarci in primavera è una meraviglia. Immagini le radici, nel buio della terra, sensitive, cercare acqua e humus e minerale. Vedi i tralci che iniziano a spingere verso ľalto, verso la luce, arrampicandosi in direzione del cielo. E in mezzo le foglie che respirano. Creando energia. Mutando acqua e anidride carbonica e luce in sostanze nutritive. Qualcosa di straordinario che I’uomo, ancora, non è riuscito ad avvicinare.
L’osservazione della natura diventa allora qualcosa di esaltante, che trascende la scienza. Non più l’uomo scisso dalla natura, scienziato, che interviene e manipola. No. L’uomo nella natura. Parte della natura. Tutt’al più osservatore di fenomeni qualitativi. Liberato dall’ossessione delle quantità. (Non è il vino dell’enologo – Lessico di un vignaiolo che dissente, Corrado Dottori, DeriveAprrodi srl, 2013)

Le fermentazioni sono state spontanee sin da subito?

Imparo che esistono diversi tipi di lievito responsabili della fermentazione dopo alcuni anni. Non avendo alle spalle alcuna formazione di tipo enologico, quando inizio a produrre vino lo faccio senza conoscenze, convinzioni, principi. I primi due anni seguo I’enologo in modo pedissequo. Mi basta che i lieviti selezionati siano «neutri» e non OGM.
L’incontro con i primi vini naturali mi apre un mondo che non conoscevo. Lieviti indigeni. Cosa significa? Lieviti apiculati. Che cosa sono?
La dialettica con Sergio si fa più aspra. Per impormi ho bisogno di studiare, di leggere, di capire. Di ribattere in qualche modo alle sue argomentazioni tecniche. Quando inizio con le prime sperimentazioni colgo finalmente la diversità delle dinamiche, dei processi.
Le fermentazioni sono più lente, spesso finiscono del tutto solo l’estate successiva alla vendemmia. I vini sono più complessi, irrequieti. In bocca paiono come più bevibili, più «leggeri».
Resto per due o tre anni a metà del guado. Da un lato c’è la paura del salto verso le fermentazioni spontanee, dall’altro la
preoccupazione economica. Per vivere devo vendere il vino. E devo averlo pronto già in primavera.
Poi, un giorno d’inverno, assaggio una delle vasche vinificate senza l’ausilio di lieviti selezionati e scopro il mio vino.
Erbe aromatiche e sentori di canfora. Arancia candita, spezie orientali e iodio. Sento che quella è la mia strada.
Sui vini rossi e sul bianco macerato arrivo fino alla totale assenza di solforosa fino al primo travaso. Ottengo vere fermentazioni spontanee, guidate dai lieviti apiculati nella prima fase, col loro tipico sentore di smalto. Lieviti che sono sulla buccia dell’uva, lieviti davvero del territorio, generalmente eliminati dai protocolli di vinificazione «convenzionali» con la prima solfitazione. Dopo qualche giorno e un bel po di rimontaggi all’aria, il saccharomyces cerevisiae prende il sopravvento e, se tutto va bene, porta a termine la fermentazione alcolica. Sono lieviti solo in piccola parte presenti nell’uva: la loro casa è la terra, in vigneto, ma soprattutto la cantina. Attrezzi, muri,
pompe, ambiente di cantina. Difficile è sapere cosa stia fermentando, quale ceppo, come abbia guadagnato spazio nell’ambiente-mosto e perché. Ma è bellissimo vedere la fermentazione tumultuosa, sentirne gli odori, assaggiare mosti i cui profumi, e odori cambiano ogni minuto.
Molto più difficile è la gestione della vinificazione in bianco. La pressatura soffice e la decantazione del mosto fiore portano finezza ed eleganza, ma l’assenza di contatto con le bucce rende spesso le fermentazioni difficoltose, con l’ovvia conseguenza di un aumento dell’acidità volatile (spunto acetico).
Specie nelle annate calde e siccitose il Verdicchio, adattatosi su terreni argillosi e calcarei molto poveri di sostanza organica, arriva in cantina naturalmente con bassi tenori di azoto assimilabile: il nutrimento dei lieviti.
Fondamentale si dimostra il lavoro in vigna.
Ricreare un ecosistema equilibrato, difendere la vita microbiologica, sostenere la fertilità del suolo attraverso pratiche naturali: tutto il lavoro dell’anno ha lo scopo di portare in cantina un’uva viva e completa, espressione ultime e definitive del terroir. Ridurre lo zolfo, potente antifermentativo, ridurre le dosi di rame, assecondare la natura rampicante della vite senza effettuare cimature, aiutare I’ossigenazione del suolo attraverso la semina di essenze con potenti apparati radicali (favino, erba medica, veccia, pisello, ecc.), ridurre i transiti con trattori lungo i filari, ogni scelta ha il fine di creare un ambiente vivo e in qualche modo naturale.
Dentro questo ambiente, a pieno titolo, ci sono lieviti e batteri. Se pensiamo che durante la fermentazione alcolica i lieviti, oltre a trasformare gli zuccheri in alcool, sono i responsabili dello sviluppo degli aromi secondari, è difficile dubitare che l’espressione più autentica del terroir così esaltata dal marketing vinicolo in tutto il mondo e per tutte le denominazioni non dipenda in modo piuttosto stretto dalla microflora indigena.
Sulla vinificazione totalmente in bianco, però, mi accorgo che c’è ancora molta strada da fare. Troppo spesso alcune vasche faticano a terminare la fermentazione alcolica oppure presentano movimenti importanti dell’acidità volatile. Non è un caso che l’introduzione dei lieviti selezionati in enologia sia legata principalmente alla spumantistica, cioè all’arte definitiva ed estrema della vinificazione in bianco…
Nel mio caso voglio sondare fino in fondo, fino all’estremo, la possibilità di fare davvero <vini-vigna», vini totalmente e definitivamente espressivi di un micro-ambiente chiamato vigna in una determinata annata. La fermentazione spontanea, con il suo caotico e incontrollabile andamento, non può che essere il fondamento di questo sogno.
Ma al di là di ogni riflessione tecnica, la sensazione netta, dopo anni di assaggi, è che esattamente come accade per il pane, i vini fermentati dai lieviti «indigeni» abbiano una beva migliore e siano più digeribili, risultando oltretutto, favolosi compagni della cucina tradizionale italiana. (Non è il vino dell’enologo – Lessico di un vignaiolo che dissente, Corrado Dottori, DeriveAprrodi srl, 2013)

Che rapporto hai con la burocrazia?

Le lavorazioni in campagna sono sospese. In cantina tutto è fermo. Ne approfitto per mettere mano ai registri che ora sono diventati informatici: il Ministero ha creato un sistema centralizzato dove inserire tutti i movimenti di cantina. Ľ’idea era ridurre il peso burocratico. Ma la realtà come sempre è più complicata.
Mentre lavoro su conti che non quadrano, diciture strambe come <vino atto a diventare>, «vino imbottigliato non etichettato», «fecce di vino non atte al consumo umano» e cento altre, per l’ennesima volta mi si chiarisce un concetto: le Denominazioni di Origine sono morte. Uccise dalla burocrazia e da un sistema europeo (quello della certificazione di alimenti, cose, processi, persone, ecc.) che ha spostato l’attenzione legislativa dalla tutela di un bene comune alla protezione di un brand collettivo oramai privatizzato.
L’origine degli alimenti e la loro denominazione non appartengono più a chi coltiva la terra e a chi ne consuma i prodotti, inizio e fine della filiera produttiva. Le Denominazioni di Origine sono morte.
Oggi, con le Denominazioni di Origine si parla semplicemente della «protezione» fornita ad alcuni marchi di fronte alla concorrenza sleale di un mercato sempre più globale e della loro promozione commerciale. In ambito europeo è stato questo il passaggio decisivo che ha modificato una disciplina complicata come quella del rapporto fra i prodotti agricoli e il territorio di provenienza: l’avvento delle DOP, Denominazioni di Origine Protette.
E’ un percorso lungo e accidentato. Fin dalla loro istituzione, negli anni Sessanta, le denominazioni italiane avevano preso una strada piuttosto lontana dagli omologhi francesi più importanti. A parte eccezioni come Barolo e Barbaresco, che riflettevano un’influenza francese e una storia tutta particolare nel contesto dei vini italiani, oppure scelte confusionarie come la dicitura «Chianti», la grandissima parte delle nostre denominazioni si sono concentrate in larga parte sul vitigno. Poco sul territorio e nulla sulle singole zone o vigne. Un vizio di origine che oggi è complicato affrontare.
In un contesto come quello di quarant’anni fa, in cui non esisteva la figura del vignaiolo ma tutto era in mano a cooperative e industriali del vino, la disciplina è stata codificata sulla base di aree vinicole generalmente vaste, generiche, spesso sulla base di clientele e relazioni politiche, in cui centrale era il conferimento o la vendita delle uve da parte dei coltivatori (in gran parte mezzadri e/o piccoli coltivatori diretti non specializzati). Lo scopo finale era quello di mantenere bassi i prezzi delle uve per soddisfare un mercato interno ancora piuttosto florido, sfruttando la nomea di vini affermatisi nella storia (di qui la centralità del vitigno: Barbera, Grignolino, Aglianico, Montepulciano, Primitivo, Tocai, Pinot Grigio, Verdicchio, Vermentino, Vernaccia, ecc.).
In definitiva la «DOC» doveva essere percepita come un livello qualitativo più elevato del vino generico, da tavola, e la garanzia della maggiore qualità era legata alla tutela e al controllo: ed ecco farsi avanti i Consorzi di Tutela come garanti e certificatori. Da certificazione di origine a certificazione di qualità, insomma. Peccato che la qualità nei vini delle cooperative e degli industriali non brillasse particolarmente. Infatti, per decenni gli italiani abituati al buon bere hanno continuato a comperare e imbottigliarsi vini «autentici» che molto spesso Doc non erano…
Il quadro cambia con gli anni Novanta. Sempre più aziende si concentrano sulla qualità, molti agricoltori smettono di conferire le uve e iniziano a imbottigliare. L’esplosione delle guide di settore e di un gusto più internazionale rendono il vino un ambito appetibile a nuovi investitori. Nascono nuove Doc. Vini simbolo come il Sassicaia – nato come vino da tavola – divengono a denominazione. La rinascita del vino italiano dopo lo scandalo del metanolo è inarrestabile ed è fortemente legata alle Doc: nomi come Brunello di Montalcino o Amarone della Valpolicella scaldano gli immaginari di appassionati e uffici marketing.
La bolla è una bolla globale: nuovi consumatori, americani in primis, apprezzano l’idea di vino italiano più ancora che il contenuto di quelle bottiglie che, lentamente ma inesorabilmente, cominciano a sapere di vaniglia e di merlot; ma la stessa cosa si può dire di nomi come Parmigiano Reggiano o Prosciutto San Daniele. Marchi che divengono cool, come Armani o Versace o Ferrari. L’emblema di un’Italia che sa produrre – che sa fabbricare – cose belle e buone. Ma importa sempre meno che all’immagine corrisponda un contenuto coerente.
Così il Parmigiano, ad esempio, si produce oramai solo in pianura con la razza frisona, iperproduttiva, lontano dai territori originarie con latte sempre più omologato .
Il made in Italy si fa immaginario. E fare agricoltura, perlomeno nel mondo ricco del vino e di qualche altro prodotto trasformato, significa fabbricare. Da qui viene la necessità di proteggere. Dall’imitazione, dalla contraffazione: l’italian sounding fa vendere e la tutela diventa così difesa commerciale.
Importante, sia ben chiaro. Ma per proteggere adeguatamente un prodotto alimentare occorre che ci sia uno standard, un punto di riferimento preso a modello. Chi lo decide? Ovviamente chi detiene i maggiori interessi economici, chi è in grado di replicare quel modello in grandi quantità e a costi ridotti: cioè chi fabbrica.
I disciplinari diventano sempre più stringenti protocolli produttivi. Tutto comincia a ruotare attorno al concetto di tipicità che, come amava ricordare Gino Veronelli, significa ricondurre a un tipo, cioè uniformare. Siamo lontanissimi dal concetto di origine: originario ha a che fare con l’originalità, che è esattamente il contrario del tipico. Ed ecco che «il passaggio dall’originalità alla tipicità delle denominazione di origine non poteva che portare a un cambiamento completo della finalità e delle degustazioni per I’accreditamento e quindi dei fondamenti delle denominazione stesse» (Francois Morel, Levin au naturel, Sang de la terre, Paris 2008, p.161.)…
A fine mattina, mentre finisco di aggiornare il registro informatico penso a quanto sarebbe semplice liberare le piccole aziende da questo peso burocratico. Poi ripenso a quanto lungo avesse visto Gino Veronelli con la proposta delle denominazioni comunali. Alla ricchezza di un dibattito che a cavallo del cambio di secolo aveva provato a scardinare dal basso un sistema evidentemente incancrenito.
Mi viene in mente quello che ho provato a fare a Cupramontana. E la chiusura totale, immediata, aggressiva, dei rappresentanti della filiera, di un sistema-vino da sempre statico ed impermeabile ad ogni innovazione reale.
É la primavera del 2015. Dopo aver fatto partire, a fatica, le Denominazioni Comunali su prodotti alimentari minori, tentando il coinvolgimento degli agricoltori locali (pochi e spesso male informati) convinco sindaco e giunta a provare un’azione sul vino. Conoscevamo i rischi politici e i limiti nella normativa. Ma ci sembrava giusto, peraltro in una fase di rinascimento del vino italiano guidato dai vignaioli, provare una strada alternativa per valorizzare il nostro territorio. Non contro qualcuno, ma per l’intera regione.
Chiedo un parere legale, poi ne parlo con le aziende del territorio che si dicono d’accordo: già da quattro anni si lavora a un faticoso ma seminale percorso di zonazione delle vigne del Comune, attraverso mappature, degustazioni cieche, ricerche su clima e geologia. L’idea è quella di presentare il progetto durante la Sagra dell’Uva, il più importante momento di festa collettiva per il paese e per la zona, invitando giornalisti e appassionati. Stiliamo il comunicato stampa di presentazione con grande attenzione. Soppesiamo parole e virgole. Quello che andiamo a censire non potrà comunque mai essere chiamato «Verdicchio» e il marchio non potrà, per legge, apparire su etichette e retro-etichette. Deve emergere che sarà un percorso di valorizzazione del vino cuprense assolutamente compatibile con la legislazione italiana ed europea.
Ciò che accade poi ha – per me – dell’incredibile: in piena vendemmia mi chiamano prima il segretario comunale e poi il Sindaco. Federdoc – ente privato che confedera i consorzi di tutela ha appena provveduto a inviare un atto di significazione e diffida indirizzato al Comune di Cupramontana, all’Ispettorato Centrale della Tutela della Qualità e Repressione Frodi, al Dipartimento delle Politiche Competitive, alla Direzione Generale per la Promozione della Qualità Agroalimentare e all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, sottolineando la palese illegittimità dell’iniziativa.
Un ente privato diffida un Comune. Nessuna richiesta di chiarimento. Nessun confronto. Nessuna possibile mediazione.
Il giorno dopo ricevo un cortesissimo controllo della Repressione Frodi in cantina. (Come vignaioli all’inizio dell’estate – L’ecologia vista da una vigna, Corrado Dottori, DeriveAprrodi srl, 2019)

C’è tanta materia, vero? Pensa che queste sono solo poche righe… Il tempo vola, la visita, ahimè, volge al termine. Coperto da un sottile velo di tristezza, mi croggiolo intimamente del fatto che poche ore non sono mai sufficienti a svelare una realtà, a prescindere dagli attori sulla scena. Pula me lo legge in faccia, probabilmente anche Corrado che mi pungola dicendo “se vuoi entrare dentro al territorio dovresti fermarti qualche giorno. Ci sono tante realtà interessanti in zona”. Ne sono certo. Per ringraziarli del loro prezioso tempo gli lascio simbolicamente un sacchetto di orecchiette di Nunzia, il divino pollice pugliese, acquistato il giorno prima durante l’esplorazione di Bari Vecchia.

Io e Pula facciamo ancora due passi. Non posso fare a meno di interrogarmi sul senso delle visite in cantina, della continua invasione personale a cui i produttori sono soggetti, sui fugaci assaggi di una vita. Non ho risposte, solo altre domande che si aggiungono a quelle che non ho avuto il tempo di fare. Poi, stanchi morti, ci rimettiamo in macchina, i finestrini abbassati nonostante la calura. Improvvisamente sogghigno.
“Che hai?” Ma già se lo immaginava.
“L’anno prossimo potremmo passare qualche giorno al mare nel Conero. Sono convinto che amerai anche il cibo.” Pula non sa resistere a quel genere di spiaggia e a un po’ di buon pesce.
“Sì, immagino. Che gentile, al mare nel Conero.”

Ah, eccoti alcune brevi note sugli assaggi della mattinata.

La Distesa visita in cantina Vigna Assaggi Cupramontana

Terre Silvate 2020
Si presenta più cicciotto è scomposto rispetto all’idea tratteggiata dai precedenti millesimi. Rimane comunque un assaggio divertente.
Prezzo in enoteca: 14,00 €

Terre Silvate 2019
Verticale, erbaceo, Terre Silvate.
Prezzo in enoteca: 14,00 €

Gli Eremi 2019
Caldo seppur vibrante. Da aspettare per qualche anno.
Prezzo in enoteca: 28,00 €

Meticcio 2020
Espressione di territorio, graffiante e profumata.
Prezzo in enoteca: 16,00 €

Nocenzio 2020
Paga la temperatura di servizio rimanendo sulle sue.
Prezzo in enoteca: 19,00 €

Le Derive 2016
Mediterraneo, animale, coriaceo. Lungo. Buono.
Prezzo in enoteca: 27,00 €

 

La Distesa
Via Colonara, 1
Cupramontana (AN)
www.ladistesa.it

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