Dietro al Cervino. Il Vallese è la north face della Valle d’Aosta: raggiunta Martigny passando per il tunnel o per il Colle del Gran San Bernardo, ti accorgerai di quanto il paesaggio circostante sia colonizzato da infiniti vigneti. Notevoli pendenze, muri di contenimento, filari in bolla, montagna a ridosso delle viti. Uno scenario a prima vista ordinato e funzionale che nasconde nel sottosuolo un massiccio e storico abuso di chimica, operato negli anni da diverse “grasse” cantine, per ottenere una produzione omologante e piaciona quasi esclusivamente destinata al consumo interno.
Mentre il panorama si fa più ondulato e vasto verso Sion, il capoluogo ricco e popoloso della regione, invariato resta invece il suolo di superficie, ancora cementificato a seguito dei vari (mal)trattamenti chimici su cui poggiano le sue viti.

Per visitare il Domaine de Chèrouche salgo verso Crans Montana, deviando su Ayent e avvicinandomi a una bella casa in mezzo alle vigne. Fuori c’è tanta umidità, l’aria profuma di neve.
Pazzesco notare come il pendio che scende a valle fiancheggiando la strada sia del tutto diserbato, morto, mentre la vigna a monte sia verde, viva e ricca.

Così a bruciapelo, tu, di quale vigna berresti il vino? Il 90% dei degustatori, spesso consapevolmente, sceglierebbe quello del pendio a valle.

Marc Balzan mi accoglie accompagnandomi al piano inferiore della casa, passando da una scala interna. La cantina è raccolta (Chèrouche è un domaine che supera di poco l’ettaro) e funge sia da zona di vinificazione che di stoccaggio. I contenitori usati sono l’acciaio e la vetroresina, solo recentemente è stata introdotta l’anfora.

CHÈROUCHE e JULIEN GUILLON: viaggio nella meraviglia del CANTONE VALLESE sans soufre - Visita in cantina

La prima Amigne della mia vita, uva bianca autoctona vallesana, è devastante: degustata dalla vasca inox, è una 2024 tagliente, alpina nel senso di rocciosa e glaciale, salina, secca al sorso. Minimale, scarna. Ne berrei dei secchi, davvero.

Ora, io di vino non capisco nulla, così come di musica (già lo saprai se non è la prima volta che mi leggi…), e ovviamente non auguro a nessun vigneron di vivere un’annata nefasta come l’ultima, ma i sorsi dalle vasche dei 2024 provenienti dall’arco alpino, soprattutto per quanto riguarda i bianchi, sono eccezionali: succhi acuminati, maledettamente poveri, secchi come un pezzo degli Shellac. De gustibus!

Tornando a Chèrouche, gli assaggi proseguono perfettamente: Les Noces ’22, Pinot Noir in acciaio è delicato nei profumi, carezzevole al palato, vuole cibo. L’Amigne in anfora ’23 è comunque bella, non fraintendermi.

Marc il vino non lo ha mai solfitato dacché il domaine ha preso forma. Il curriculum suo e quello di Andrea, la moglie, è di tutto rispetto, affonda a piene mani nella ristorazione e nell’enologia consapevole.

Prima di lasciarci, pranziamo egregiamente in un bistrot sorseggiando il Diolinoir, croisement alpino tra Pinot Noir e uva Dioli, a cui viene successivamente aggiunto altro Pinot Noir, tutto sul frutto e la beva.

Carico un po’ di bocce in auto e imbocco la strada del ritorno per il rendez-vous con Julien Guillon.

CHÈROUCHE e JULIEN GUILLON: viaggio nella meraviglia del CANTONE VALLESE sans soufre

Ah! Non ti ho parlato dei suoli che caratterizzano il Vallese: sabbie detritiche, fluviali quanto più ci si avvicina al letto del Rodano. Salendo di quota però il discorso si complica: granito in grandi quantità, marna, calcare. I profili aromatici dei vini mi appaiono nella maggior parte dei casi complessi, soprattutto quelli dei bianchi, mentre nei rossi la ricerca ossessiva del frutto può risultare fine a se stessa, mascherante, comunque gradevole perché non finta o elaborata.

Se Marc è un vigneron riservato e di poche parole, Julien è l’esatto opposto: disinvolto, estroverso, casinista! Mi accoglie all’ingresso di casa con un calice di Sylvaner orange, denso, fruttatissimo, amplificato.

CHÈROUCHE e JULIEN GUILLON: viaggio nella meraviglia del CANTONE VALLESE sans soufre - Vini

È una degustazione davvero divertente, a partire dal tannico e selvatico Gamaret “La Chute”, uva rossa croisée tra Gamay e Reichensteiner, assaggiata in versione acciaio per i millesimi ’18 e ’19, in legno per il millesimo ’20. Passando per l’Humagne Blanche ’21 “Ma Dame” quasi una Petite Arvine neutra, cannonata di sale, detrito e spigolo, l’ottimo Pinot Noir’20 “Cuvée Matéo” dalla resa suicida di 300 grammi per pianta, l’uvaggio Pinot Noir-Pinot Gris in stile alsaziano, l’assemblaggio base Syrah chiamato “TonTon Tata”… poi un pétillant rosso in fase embrionale, non etichettato, di cui ricordo tanta cremosità al palato; a cui aggiungere un Pinot Noir di Patrick Bouju a sciacquare!!!

I vini di Julien Guillon non sono mai solfitati, ottenuti da rese bassissime, centrati su un frutto esplosivo, tanto che mi chiedo, in termini di mineralità, di scia salina, cosa succederebbe se il nostro alzasse di poco i rendimenti… In mezzo agli assaggi tanti racconti, progetti, esperienze, scambi di opinioni e di scarpe, risate. Julien è in formissima e io pure; le bottiglie finiscono, facciamo festa proprio.

Rientrando, nella mia testa, prendono forma alcune considerazioni riguardo all’approccio sans-soufre che hanno entrambi i vigneron a cui ho fatto visita. Il Cantone Vallese è stato, e per certi aspetti rimane una “Napalm Valley” enologica (citando un’espressione che pronunciò Philippe Pacalet in merito all’abuso di chimica nella Napa Valley), la scelta di un’agricoltura e di un artigianato etico del vino non è assolutamente scontata. Forse quella di Chèrouche, Guillon e aggiungo Mythopia, con cui non sono riuscito a mettermi in contatto, è una reazione agli eccessi chimici della regione?

Julien Guillon (qui trovi il suo IG) è un esploratore delle vinificazioni, uno sperimentatore vero. I suoi vini sono liberi, vitali, dirompenti. Marc Balzan un innovatore per quanto riguarda l’esclusione della solforosa in produzione. Non è poco. Altri grandi vecchi delle fermentazioni spontanee vallesi sono Marie-Thérèse Chappaz, Marion e Jacques (recentemente scomparso) del Domaine du Beudon. In entrambi i casi, produttori di ottimi vini montani dal tenore solforoso comunque più ingombrante.

Basta? Non proprio. Alcuni giovani vigneron si stanno appassionando recentemente all’approccio naturale, penso a Thimotée Place della Momoterie o a Ilona e Denis di Ô Fâya Farm, dunque la scena naturale vallese è in movimento.

Come per il precedente viaggio in bassa Savoia,  molti sono i paragoni con la mia Valle d’Aosta, anche se in questo caso -“purtroppo” aggiungerei! -, i punti di caduta comune riguardano principalmente le note dolenti: un diffuso sistema teorico/pratico, tecnico/chimico che facendo leva sulla sommellerie e su certa ristorazione pigra e boccalona, spadroneggia da anni; una scena etica vitale, mediamente più giovane rispetto a quella valdostana, non ancora in grado di darsi un’ unica voce, ma per certi aspetti più coraggiosa, soprattutto per quanto riguarda l’esclusione della SO2 dai vini prodotti.

Come sempre servirà lavoro, ampiezza di vedute, unità di intenti. Costanza. La rispettabilità di Chèrouche e di Julien Guillon è riconosciuta ovunque e costantemente in crescita,  ecco perché occorre crederci, specialmente se a combattere è Davide contro Golia. Il tempo è galantuomo, non dimenticarlo.

 

About the Author: Edoardo ” Edo” Camaschella

Nato ad Aosta nel Marzo del 1977, passo l’infanzia in skate. Poi snowboard, mountain-bike, trail… Musica, sempre, viaggi e contaminazione pure. Nel 2006 una Coulée de Serrant fa nascere in me l’amore per il Vino. Mi informo, assaggio, esploro, leggo e scrivo. Studio! Con ahimè pochissime occasioni di scambio e come sempre, senza indossare divise. Dal 2019 vendo la mia idea di Vino in Valle d’Aosta. Ma in fondo l’ho sempre fatto: raccontandolo agli amici, annoiando Francesca mia moglie, facendo scappare i miei figli, Bianca e Dante! Proprio la condivisione insieme alla natura del gusto, sono i cardini del mio approccio. Che è essenzialmente musicale, non necessariamente tecnico. Sicuramente emozionale e positivo. In una parola: hardcore!

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