“Mangiato e bevuto da 10 in Messico vero? Però scommetto che ti è mancato il vino, eh?”

No, per niente. O meglio: mi è mancata la componente popolare che l’amato nettare di Bacco porta con se nello Stivale (il prezzo in soldoni), ma a livello qualitativo anche no. Oltre al fatto che nei maggiori centri urbani o turistici oramai si trovano vini provenienti da ogni parte del mondo, diversi assaggi naturali messicani sono stati davvero entusiasmanti.

Vuoi un esempio? Jair Tellez ti dice qualcosa?

Nel caso ne avessi già sentito parlare molto probabilmente sarà stato a causa di uno dei suoi famosi ristoranti. Su tutti il Laja in Baja California e il Merotoro a Città del Messico.

Un po’ più difficilmente potresti però conoscerlo anche per l’avventura intrapresa insieme a suo fratello Noel e all’enologo francese Louis-Antoine Luyt che, nel 2014, li ha portati alla creazione della prima vera cantina “naturale” messicana: Bichi Wines.

Ma facciamo un passo indietro. Il Messico, territorio dove i conquistadores spagnoli piantarono per la prima volta la vite nel 1500, quindi prima ancora che in Cile o in Argentina, era così adatto alla sua coltivazione che la corona spagnola ordinò immediatamente l’interruzione della produzione per paura che il vino del Nuovo Mondo diventasse più popolare di quello iberico.
Molti missionari gesuiti però si rifiutarono di fermarsi e grazie alla loro resistenza, oggi, nella Valle de Guadalupe, in Bassa California, un vocato territorio situato tra i comuni di Ensenada e Tecate, viene prodotto più del 90% del vino messicano.

Valle de Guadalupe – Dall’account Instagram di Bichi Wines

Proprio a Tecate, dove sono presenti alcuni dei più antichi vigneti di tutto il Nord America, ha sede appunto Bichi Wines ed è sempre qui che vengono coltivati in biodinamica i 10 ettari di vigneto di proprietà della famiglia Tellez, mentre una piccola parte delle uve provengono dalla collaborazione con alcuni fidati agricoltori della zona.

Quali uve?

Misión (lo spagnolo Listán Prieto), Grenache, Tempranillo, Pinot Noir, Chenin Blanc e No Sapiens, un misterioso vitigno che rimane non identificato (forse Carignan dalla Spagna o forse Dolcetto portato dall’Italia negli anni ’40), molte delle quali ancora a piede franco.

Adesso che Louis-Antoine Luyt li ha lasciati per dedicarsi a tempo pieno a alcuni progetti personali, su tutti l’omonima azienda vitivinicola nella Valle del Maule in Cile, a guidare l’attività, con Jair intento a seguire principalmente i suoi tanti altri progetti nella ristorazione, ci sono, aiutati dal francese Yann Rohel, appunto Noel, il vero cuore pulsante del progetto, e la sua compagna, Maryam Hariri.

Sempre più innamorati del nettare di Bacco e circondati dalle enormi cantine convenzionali della zona, dove le sale per la degustazione sembrano più sfarzose ma fredde chiese che luoghi di convivio e cultura, procedono in direzione contraria e ostinata, con l’obbiettivo di creare, oltre a grandi bottiglie, un mercato nazionale per il vino naturale che sia accessibile ai più. Ma come ti ha già raccontato Francesco qui, non è una battaglia facile da combattere. Per niente. Senza un aiuto politico direi impossibile.

La storia della vinificazione in Messico è commerciale, non culturale. Siccome Tijuana era il bar degli Stati Uniti durante il proibizionismo, il Messico iniziò a produrgli il vino senza che, ovviamente, la maggior parte dei messicani quasi sapesse cosa fosse. Un aspetto che però ai fratelli Tellez non è mai importato e infatti non hanno la minima idea di abbandonare la strada intrapresa.

Ce la faranno?

Chi lo sa… Di certo i prezzi per la maggior parte del popolo messicano sono ancora molto proibitivi.

Intanto però, siccome in Italia i loro vini non sono mai arrivati, giunto a Città del Messico, ho subito cercato di assaggiarli. E quale luogo poteva essere più adatto di Amaya, l’ultimo ristorante aperto da Jair nella capitale, uno dei “paradisi” cittadini del vino naturale?

Uno degli scaffali di Amaya

Beh, il primo impatto non è stato dei migliori: il Pet Mex 2020 (circa 45,00 euro al tavolo), un metodo ancestrale di No Sapiens a piede franco, a causa di un residuo zuccherino un po’ troppo marcato, non mi ha fatto impazzire. Tutt’altro.

Tecate Rosa Bichi Wines

Fronte/retro del Tecate Rosa 2021 di Bichi Wines

Il vino che invece mi ha inaspettatamente emozionato è il Tecate Rosa 2021 (circa 40,00 euro al tavolo da Amaya) un 100% Grenache proveniente da un vigneto di 80 anni, piantato nella Valle di Guadalupe su suolo argilloso ad un altitudine di 300 mt sul livello del mare.

Archiviato il sorriso strappatomi dall’etichetta raffigurante un luchador imbarazzato perché rimasto solo con addosso la tipica maschera da lottatore, mi sono trovato dinanzi a un vino crudo, “uva e basta”, in pieno stile Bichi, che infatti nel dialetto Yaqui, una popolazione di nativi americani, significa “nudo”, davvero ben fatto. Un rosato ispirato in cui le uve, pigiate a grappolo intero, fermentano in inox lontano dalle bucce sino a quando il vino viene imbottigliato in assenza di alcuna sofisticazione o aggiunta.

Un succo d’uva dall’irresistibile cromaticità tendente al rosso, vivo, dove aromi suadenti, di frutta e di fiori, e sensazioni fragranti si combinano con eleganza a un sorso minerale dalla chiusura salina decisamente intrigante per la tipologia di vino. Tanto da convincermi appieno sulle potenzialità di un territorio sul quale, un po’ per caratteristiche climatiche e un po’ per la sua recente storia enoica, non avrei scommesso molto. Dai, quante volte ti sei entusiasmato per un rosato?

L’unico problema adesso è quando lo ribevo? Come faccio ad assaggiare gli altri vini di Bichi Wines? Aiutatemi… E tu che esperienze hai avuto con il vino messicano? Avresti voglia di raccontarmele?

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