Siccome qualche articolo fa ti parlai della Malvasia di Bosa ossidativa e di come questa perla enologica stia quasi per scomparire (nel caso te lo fossi perso clicca qui!), restando su questo stile produttivo, ti vorrei raccontare di una bellissima serata che si è svolta a fine aprile a Cagliari, dove i ragazzi di Vignaioli Cagliari (un mix tra una fiera di vini e una festa che si svolge nel capoluogo sardo nelle prime settimane di maggio), in collaborazione con ONAV Cagliari, hanno organizzato un incontro con tre produttori di vini ossidativi: Nino Barraco da Marsala, Piero Carta da Bosa e Davide Orro da Tramatza. A moderare la serata è intervenuto il bravissimo Matteo Gallello con il supporto del consigliere nazionale ONAV e direttore della didattica della sezione Vasco Ciuti, grande promotore dei vini naturali in Sardegna e non solo.
Vasco ha aperto le danze con la presentazione, non priva di emozione, degli ospiti. Poi la parola è subito passata a Matteo che ha introdotto lo svolgimento e i temi dell’incontro. In seguito i produttori hanno risposto alle sue domande e… Beh, quello che farò io sarà cercare di riassumere le parole dei tre vignaioli nel tentativo di farti scoprire le diverse tradizioni che stanno dietro alla produzione di questi incredibili vini. Infine ti lascerò giusto due parole sulle etichette che abbiamo degustato durante questa serata. Può andare?
Cominciamo però dall’introduzione di Matteo in cui, con la solita dose di passione mista a poesia che lo contraddistingue, ha parlato degli ossidativi come “vini emblematici dal forte carattere mediterraneo“. Prodotti ricchi di cultura, tradizione e umanità. Vini che posseggono “il senso dell’ospitalità, il senso del luogo, il senso della tradizione, lo scambio umano“.
Ma quali sono le componenti indispensabili per la realizzazione degli ossidativi? Uno è senza dubbio lo scambio con l’aria che l’enologia ha sempre demonizzato, e lo fa ancora, a favore di un controllo “asfissiante“, tanto che nei vini classici l’ossidazione viene considerata un difetto. In questi casi invece è un qualcosa di voluto e fortemente cercato.
“Gli ossidativi sono modellati dalla gradualità, non sono vini immediati però sono vini sempre disponibili, quasi consolatori. Sono dei vini esposti a innumerevoli variabili di cambiamento veramente importanti nel tempo, sono fatti di equilibri precari ma questi equilibri così precari sono quelli che li proiettano nel tempo e li fanno diventare quasi immortali.“
Matteo ha poi ricordato che non è solo l’aria il tassello fondamentale di questi vini, ma che gli altri grandi protagonisti sono i lieviti flor e le botti scolme in cui il liquido sosta per diversi anni, in piena controtendenza con i gusti del consumatore odierno e le modalità con cui sono plasmati da vini più immediati e alleggeriti. Siccome oramai si cercano sempre più etichette di pronta beva, ha perciò definito gli ossidativi come “vini antimoderni” (termine coniato dal suo amico Giampiero Pulcini) o “anti contemporanei”, sottolineando come siano appunto prodotti antieconomici da proporre, sottoposti a molti rischi che non tutti gli anni ne rendono possibile la produzione e perché solo ultimamente le cantine riescano a uscire sul mercato con prezzi veramente profittevoli.
Inoltre, non sarebbe stata una vera introduzione alla serata serata, senza un accenno all’uso tradizionale che si fa di questi vini nelle zone di origine: “Li apri quando hai di fronte una persona di cui hai considerazione. Sono vini dell’accoglienza, sono vini che hanno bisogno di essere stappati quando conosci una persona e quindi ti onori della sua presenza. Oppure quando la vuoi conoscere, quando vuoi approfondire una conoscenza. E questo mi fa venire proprio in mente il senso dell’antico che contengono questi vini“.
Sempre a proposito di questo “senso dell’antico” ci ha fatto quindi notare che le cantine dove si producono i vini ossidativi sono dei “laboratori arcaici” in cui si è formato e stratificato un patrimonio biologico di lieviti che sono fondamentali per la loro realizzazione. Addirittura in molti luoghi, come nel caso della Vernaccia e del Marsala, sono l’inverso di quelle classiche, collocate a livello del terreno e non interrate, volutamente esposte agli agenti atmosferici perché i lieviti devono essere nelle condizioni di andare sotto stress, devono riuscire a lavorare con ricambi d’aria o forti escursioni termiche. Per questo li definisce “vini di sole, di calore“.
Chiude infine spiegando che sono tutti vini che si armonizzano quasi miracolosamente, che i “fili” che li compongono e che si intrecciano con il passare del tempo sono fortemente correlati con le caratteristiche naturali dei luoghi in cui nascono. Parliamo del sole e del vento, del mare e delle escursioni termiche. Tutti elementi che poi andranno a caratterizzare i prodotti finali, quei pochi casi rari di vini ossidativi mediterranei dove non si utilizza la tecnica della fortificazione.
Bene, come già anticipato, adesso proverò a riassumerti le parole dei tre vignaioli: il racconto dei loro vini, i loro territori e le loro tradizioni. Sei pronto?
Davide Orro e la Vernaccia di Oristano
Davide ha iniziato col parlarci della storicità della Vernaccia di Oristano. Si stima che quest’ultima vanti 3500 anni di storia grazie ai ritrovamenti di vinaccioli fatti sul sito di Sa Osa, ma c’è anche la possibilità che già in epoca romana si producesse un vino ossidativo. Questo perché quando si effettuarono alcuni studi filogenetici sui lieviti del Mediterraneo, quelli flor isolati in Sardegna possedevano una genetica tra le più antiche di tutto il bacino e in più apparivano come i meglio conservati in maniera distintiva. Per questo motivo racconta sempre di un vino precedente all’Impero Romano, spiegandoci poi quali sono le condizioni e i passaggi per ottenerla.
“Quando mio nonno mi spiegò come si faceva questo vino mi disse che era semplicissimo, molto facile. Tre sono le regole. La prima è la sanità dell’uva e su questo non si discute. Solo da un’uva sana si può rischiare di fare un buon vino. La seconda è il grado zuccherino, se non hai almeno 21-22 gradi Babo al mostimetro, non portarla in cantina perché non è miracolato e puoi fare anche aceto dalla Vernaccia. La terza, una volta rispettate queste regole, è un minimo di sapere e di attenzione nei confronti delle botti, il naso giusto, la pulizia e quant’altro… Mettere in legno e farsi il segno di croce affidandosi alla natura.” Sostanzialmente quello che fa oggi è lo stesso metodo che si usava una volta, ma con qualche nozione in più! E infatti ci ha narrato di un vino di estrema semplicità, eppure di grandissima complessità perché nato dalla somma di tantissimi equilibri.
Se non avessi intenzione di parlatene in un prossimo articolo, magari dopo esserlo andato a trovare in cantina, adesso ti avrei riportato la sua splendida spiegazione su tutto ciò che riguarda la formazione e il lavoro dei lieviti flor: cosa li diversifica da tutti gli altri, come e perché si forma il velo sulla superficie del vino e le sue funzioni principali… Pertanto porta solo un altro po’ di pazienza.
Tornando alla serata, Davide, agronomo e ricercatore, ha sintetizzato la produzione della Vernaccia di Oristano in tre fasi distinte. La prima è quella biologica, in sostanza la fase di formazione e lavoro dei famosi flor. La seconda, la cosiddetta chimica, è quando si ha l’ossidazione del vino, in una maniera molto lenta dovuta soprattutto ai tanti anni che il liquido passa all’interno della botte sotto velo. Qui l’unico ossigeno che entra a contatto con il vino è quello che passa dalle doghe del legno. La terza infine è quella della concentrazione, per lui la più importante. A questo punto è stato ripreso il discorso iniziato da Matteo sulle cantine atipiche giacché la temperatura dev’essere funzionale all’evaporazione dell’acqua dalle botti. Cioè l’esatto opposto di quello che succede normalmente. Così si avrà una considerevole diminuzione di volume, fondamentale per concentrare il prodotto e aumentare la percezione gusto-olfattiva. Molto importante, ci viene fatto notare, è mantenere uno tenore acido “dignitoso” per non rischiare di ritrovarsi con vini molli, troppi pesanti.
Approfondendo invece le condizioni indispensabili per produrre una Vernaccia di Oristano ossidativa di un certo spessore ci ha raccontato dell’importanza di partire da una buona concentrazione in vigna e che quindi la resa ideale si aggiri tra i 40/50 q/ha (il disciplinare permette fino a 80 q/ha). Molto importante inoltre è il periodo della vendemmia, in cui si deve raccogliere un’uva matura, o surmatura, ma senza che vada mai in appassimento. Ovviamente, come diceva anche suo nonno, è importante avere un certo grado Babo, questo perché l’alcol formatosi durante la fermentazione altro non è che la barriera microbiologica che permette ai lieviti flor di proliferare e di tenere invece a bada i batteri acetici. Per quanto riguarda invece l’acidità non ci sono grossi problemi visto che la Vernaccia è un vitigno che di base ne possiede tanta. Poi ovviamente cambia anche in base ai terreni. I suoi, per esempio, sono dei suoli alluvionali di formazione recente che paragona al letto di un fiume.
“La tradizione è il nostro futuro. Una delle cose che mi ha spinto a studiare e approfondire sempre di più questo tema della Vernaccia, del territorio, è stato il pensiero di mio nonno e di tutto quello che aveva fatto. Questo porta il senso di continuità, di voler dare continuità, che non vuol dire necessariamente restare ancorati a quello che loro sapevano e rimanere fermi lì.” E infatti è risultato evidente un cambio generazionale con il padre piuttosto netto. Sì, la tradizione va mantenuta e rispettata, ma va anche migliorata grazie alla tecnologia che oggi abbiamo a disposizione.
Il discorso è continuato poi con il paragone tra lo stato di salute della Vernaccia di Oristano nei primi del Novecento e oggi: “Se noi pensiamo ai primi del Novecento in Sardegna c’era solo Vernaccia di Oristano. Non c’era festa dove non c’era Vernaccia di Oristano, non c’era matrimonio dove non c’era Vernaccia di Oristano, nascite, morti, comunioni, tutto quello che doveva passare nel tessuto sociale era legato a questo vino. Si può certamente dire che era il vino più rappresentativo della Sardegna, ancor prima del Cannonau e ancor più del Vermentino. Praticamente lo si poteva trovare ovunque e in qualsiasi parte dell’isola. Anche le produzioni erano nettamente maggiori, pensa che si parlava di 4000 ettari coltivati, mentre ai giorni nostri la situazione è assai diversa, seppure con l’obbiettivo comune di rilanciare zona e vino, sono rimaste solo 5 aziende a produrla e gli ettari vitati sono diventati 400…
Che gran peccato, vero?
Ok, ma non disperare, mi trovo d’accordo con Davide e i suoi ” compagni d’avventura” nel pensare che ripartendo proprio dal suo luogo di origine, facendola riscoprire anzitutto alle persone del posto, insomma facendogli recuperare il ruolo sociale che aveva in passato, la Vernaccia di Oristano potrà realmente rilanciarsi. Perché in questo caso parlare solo di un vino eccezionale sarebbe riduttivo.
Per la seconda parte di “I vini OSSIDATIVI, tra Sicilia e Sardegna – Il RACCONTO della serata” ti toccherà aspettare solo qualche giorno. A presto.
Cagliaritano DOC classe 1984, Esperto Assaggiatore ONAV e consigliere per la delegazione cittadina della medesima, mi son avvicinato al mondo del vino circa una decina di anni fa, innamorandomi fin da subito del movimento “naturale” e in seguito anche delle fantastiche persone che lo popolano. Galeotto fu un seminario di degustazione in 4 serate tenuto a Cagliari da Sandro Sangiorgi, del quale, pur senza capirci a quel tempo una benemerita mazza, ancora ricordo, per filo e per segno, alcuni degli splendidi vini assaggiati. Mi colpirono per la loro istintività, di come allo stesso tempo riuscissero a essere imprevedibili e conviviali. Un sogno? Aprire una piccola enoteca con mescita. Dove? A Cagliari. E dove sennò.