E dopo i salumi potevo non accompagnarti alla scoperta dei formaggi della mia regione d’adozione? Da Ponente a Levante, ma in ordine sparso, una mini guida sulle eccellenze e sulle PAT liguri, perché, in realtà, la caseificazione qui era già diffusa sin dal Medioevo, quando il formaggio veniva usato anche come merce di scambio. E rimani sintonizzato, perché ogni volta che la sottoscritta troverà qualcosa di prelibato e degno di nota da raccontarti aggiornerà questa “Guida galattica ma ligure per appassionati di formaggi”… Pronto? Si parte!

 

Toma di pecora brigasca

Forse non tutti sanno che la cucina ligure delle Alpi Marittime, al confine tra Piemonte e Francia, viene chiamata “Cucina bianca”. Una cucina dai colori chiari perché praticamente priva di carne, ma ricca di funghi, porri, farina di castagne, patate, lumache, fagioli e, soprattutto, formaggi. Tanti dei quali ovini, prodotti con il latte di pecora Brigasca, una famiglia autoctona il cui nome si deve al paese di La Brigue, nella Val Roya. 
All’inizio del ‘900 nell’area tra Liguria, Piemonte e Provenza erano allevati circa 60.000 capi, oggi ne rimangono solo 2500, di cui 1800 in Liguria. Ecco perché questo formaggio d’alpeggio oggi è un presidio Slow Food: una razza, una tradizione, un sapore da preservare e promuovere.

 

Bruss

Il siero recuperato dalla caseificazione delle tome viene trasformato in ricotta e soprattutto, lasciato a fermentare per almeno dieci giorni (con aceto, olio di oliva, pepe o peperoncino in dei contenitori di larice o ciliegio, anche se oggi viene perlopiù venduto in vasetti di vetro) diventando un altro formaggio tipico di questa razza ovina: il Bruss, una PAT ligure il cui nome potrebbe derivare dal dialetto piemontese ”brusè”, bruciare, un prodotto che dalla persistenza aromatica medio elevata, che se può regalare una forte di sensazione di piccantezza, che appunto quasi “brucia” la punta della lingua.
Merenda dei pastori dell’entroterra, la tradizione vuole che il bruss si spalmi su delle fette di pane casereccio, meglio se quello di Triora. Ma è anche il protagonista del condimento dei sugeli, tipici gnocchi della cucina bianca ligure, o come accompagnamento a patate e polenta.

 

Formaggio di Santo Stefano (San Ste’)

Formaggi liguri guida - San Ste

Anticamente utilizzato come merce di scambio dagli abitanti della Val d’Aveto, veniva infatti anche chiamato Formaggio di Chiavari a causa della “vicinanza” del centro economico tigullino ai suoi luoghi di produzione, il San Stè, ottimo anche in purezza, soprattutto nelle versioni più stagionate, anche per diversi mesi, dà il suo meglio se arrostito a fette su una piastra di ardesia e servito su pane casereccio, come da tradizione.
Dal siero della sua lavorazione si produce inoltre il Sarassu, il cui nome deriva dal provenzale “serác” e dal latino “serum”, siero, una ricotta salata che viene utilizzata, grattugiata, soprattutto per insaporire le paste locali.

 

Toma di Mendatica

Sai che il nome toma è legato al territorio alpino nord-occidentale? In provenzale il termine “tuomo”, ossia formella, si riferisce agli stampi che danno forma al formaggio.
A differenza delle tome citate sopra, anche se ci troviamo sempre nella stessa zona delle Alpi Marittime, il latte con cui questo formaggio a pasta semidura viene prodotto è misto (vaccino e ovino) e il gusto risulta più o meno dolce, a seconda della stagionatura. Tradizionalmente veniva usato per cucinare la frandura, una torta di patate del ponente ligure.

 

Formaggio di malga di Triora

Formaggi liguri guida

Anch’esso appartiene alla secolare cucina bianca della zona alpina ligure, come altri cibi nati sui sentieri della transumanza. Questo formaggio, sempre a pasta semidura, è però prodotto esclusivamente con latte di vacca che grazie all’alimentazione dei capi in alpeggio si riflette in una serie di identitarie caratteristiche organolettiche. Ah! Anche parzialmente scremato, siccome la tradizione e le esigenze locali imponevano tale procedimento con il fine di ottenere il prezioso burro di panna.

 

Formaggetta di Stella (o della Valle Stura)

Conosciuta anche come “Formaggetta del Ponente”, è uno storico formaggio a pasta molle delle aree montane da Imperia fino a Savona, con piccole variazioni tecnologiche a seconda del luogo di produzione. Apprezzato per le sue caratteristiche organolettiche particolari come i sentori vegetali che gli sono conferiti dalla vicinanza con il mare, è però poco conosciuto al di fuori delle zone di produzione.
Se il latte utilizzato per la sua produzione, quando ancora ciascun contadino del Ponente possedeva una piccola stalla (4 o 5 capi), era principalmente quello di pecora, oggi risultano prevalenti quelli di vacca e capra.
Oltre a essere spesso usata come ripieno per le focaccette, in alcune osterie viene servita ancora come antipasto, accompagnata da olive taggiasche, olio ed un pizzico di pepe fresco. 

 

Robiola della Val Bormida

Diventa famosa quando Pantaleone da Confienza, medico di casa Savoia, descrive nella Summa lacticinorum i principali formaggi piemontesi e per quanto riguarda la robiola afferma che le migliori sono prodotte a La Morra, nel Monferrato e “nei possedimenti montani dei Del Carretto”, cioè le robiole ovine (a volte prodotte con una piccola aggiunta di latte di capra) della Val Bormida. Diffusi in tutta la vallata, con particolare densità a Bardineto, Osiglia e Cairo, gli ovini difatti venivano allevati soprattutto per la produzione di lana e appunto delle robiole che, insieme alla carne salata e alle castagne, costituivano il cuore della riserva alimentare per l’inverno. E ancora oggi è possibile trovarne di buonissime!

 

Caprino della Valbrevenna

Uno dei tanti caprini provenienti dall’Appennino Ligure è un formaggio a pasta molle, grasso, più o meno fresco, ottenuto attraverso coagulazione lattica. Dopo una lunga acidificazione, la cagliata viene posta nelle classiche fuscelle forate per lo spurgo, ottenendo così un prodotto che grazie all’alimentazione estiva fatta di erbe spontanee delle capre al pascolo nel Parco regionale dell’Antola risulta di grande aromaticità e buona persistenza. Meraviglioso in purezza o da contraltare ai fritti liguri, i cuculli su tutti.

 

Giuncata

Tipica della provincia di Savona, una delle sue particolarità è l’assenza di sale, ecco perché è  perfetta come farcitura per le paste ripiene o come base per i dolci, oltre che in accompagnamento a marmellate e confetture.
 La Giuncata, o Zuncà e Giuncà, è un formaggio grasso a pasta molle, sempre fresco, il cui nome deriva dal “gurettu”, una specie di rete fabbricata con i giunchi raccolti nelle aree umide, sulla quale, in passato, si ponevano le paste dei prodotti caseari a spurgare e grazie alla quale assumevano la particolare rigatura sulle facce.

 

Prescinsêua

Merito di questo storico formaggio se Genova è stata proclamata “Città del Formaggio 2023”, titolo che l’Onaf, l’Organizzazione Nazionale Assaggiatori Formaggi, assegna a quei comuni che sono sede di produzioni casearie identitarie eccellenti.
Beh, la prescinsêua non è altro che una cagliata, un formaggio che viene prodotto dal processo di acidificazione del latte, il cui nome deriva dal dialetto genovese “presu” che vuol dire presame, caglio.
Se un tempo i pastori che la producevano tra le colline scendevano fino alle spiagge per venderla e spesso veniva servita guarnita come dolce, aggiungendo zucchero e cannella, ancora oggi è l’ingrediente che non può mai mancare nella torta Pasqualina, ma anche in quella di zucca, per la farcitura di paste ripiene o in diverse ricette gourmet di intraprendenti chef che la utilizzano come base per la cheesecake o per mantecare il risotto. Pensa che già nel 1413 una legge della Repubblica di Genova la indicò come unico omaggio che i genovesi potevano fare al Doge.

 

U Cabanin

La lavorazione tradizionale di questo formaggio prevede l’utilizzo di latte vaccino intero esclusivamente di bovine di razza Cabannina allevate nella Provincia di Genova ed alimentate con foraggi freschi o affienati prodotti nella zona di allevamento.
Oggi prodotto in particolar modo a Rezzoaglio da pochissimi caseifici, U Cabanin al naso evoca sentori lattici di burro, di fieno maturo, miele e nocciola, anche grazie a una stagionatura di almeno 50 giorni. La buona acidità lo rende poi perfetto per essere mangiato da solo.

 

About the Author: Rossana “Roxy” Borroni

Nata in un piccolo paese del ridente hinterland milanese, ho cambiato 15 volte indirizzo di casa e vissuto in 7 città diverse, per poi approdare nella Superba (che ho odiato e amato fin da subito). Sono cresciuta a pane e turismo e pane e viaggi, parlo tre lingue e ho sempre creduto che mangiare sia il modo migliore di incorporare un territorio.
 Sono sommelier AIS e assaggiatrice ONAF, stare a tavola è il mio passatempo preferito insieme alla ricerca spasmodica di realtà enogastronomiche artigianali, sconosciute, con una storia che valga la pena di essere raccontata. Perché raccontare e infondere consapevolezza sono da sempre il fuoco sacro che mi brucia dentro, perché parafrasando Alain Ducasse “mangiare è un atto civico” e soprattutto politico, avrebbe aggiunto Carlin Petrini.

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