Quale vignaiolo “di confine” per primo ha adottato la macerazione delle uve bianche nella produzione dei suoi vini? Gravner? Radikon? Chi? Fai attenzione però: non mi sto riferendo al consumo familiare, bensì a una produzione commerciale.
Per provare a risolvere questo mistero, poco tempo fa mi sono spinto con Pula fino in Slovenia avendo letto nel libro di Simon J. Wolf, Amber Revolution, che sia Josko che Stanko avevano commercializzato il primo orange all’incirca nel 1997, ma che nel Carso, Kras in Sloveno, Rencel e Cotar praticamente l’avevano sempre fatto.
Siccome poi alcune delle Vitovska di Branko Cotar in passato mi avevano davvero emozionato, soprattutto quelle con qualche anno sulle spalle, la scelta sulla visita in cantina da dove cominciare l’indagine mi è parsa ovvia, quasi doverosa.
Passato il confine (che brutta parola oggi, non trovi?), infatti ci siamo arrampicati sull’altopiano attraverso alcuni kilometri di bosco, nel regno della pietra, sino al paesino di Gorjansko e, dopo aver parcheggiato l’auto nel cortile, dinanzi alla porta della casa/cantina abbiamo trovato ad attenderci proprio lui, Branko. Non ti dico niente sulla felicità provata per la possibilità di poter ascoltare chi il vino lo fa davvero, da tempi immemori, invece che con gli addetti alle visite (anche se simpaticissimi eh) che sempre più spesso spuntano nelle cantine che eppure continuano a definirsi “piccole aziende a conduzione familiare”. Credo di essermi commosso.
L’inizio non è stato dei più accomodanti. Branko è un uomo imponente, carismatico. Tra il bianco di barba e capelli, i suoi occhi portano con sé sì la bellezza, ma anche la durezza del paesaggio circostante e nelle presentazioni di rito, avevo l’impressione che mi stesse pesando. Poi all’improvviso ha sorriso. Forse dopo essersi accorto che Pula, mentre gli stavo raccontando le mie impressioni sulla Vitovska 2019, aveva ingurgitato con nonchalance, più o meno in 30 secondi 30, tutto il salame che gentilmente ci aveva offerto insieme al vino. A quel punto mi ha mostrato il suo Kras. E ti dico subito che me ne sono innamorato.
“Il Carso era sempre stato una regione verde e feconda, piena di prati, boschi e torrenti dalle acque freschissime. Un giorno il buon Dio si accorse che, in un angolo della terra, c’era un grosso cumulo di sassi che danneggiava l’agricoltura e incaricò l’Arcangelo Gabriele di raccoglierli e gettarli in mare. Allora Gabriele riempì un pesante sacco e si diresse in volo verso l’Adriatico. Quando si trovò in prossimità del Carso il diavolo lo vide e incuriositosi bucò con le corna il sacco dal quale precipitarono quelle pietre trasformando l’altopiano in una enorme pietraia.” Questa è solo una leggenda locale, eppure il Carso è davvero una terra di pietra, un altopiano composto da rocce calcaree che secoli fa era coperto di foreste di rovere e di querce e che, a causa della pastorizia e della Bora, è piano piano diventato una pietraia.
Una distesa di pietra della quale i suoi abitanti hanno fatto virtù, sfruttandone la fragilità per costruirci muri, tetti, pozzi e focolari a quali riunirsi la sera, ma anche per scavarci le cantine dove conservare il vino al fresco senza bisogno di condizionatori o quant’altro.
Branko mi descrive il Carso come un’isola racchiusa tra la valle della Vipava, l’Istria e il Collio, d’altronde il Mar Adriatico dista da qui solo una manciata di chilometri. Il clima può essere dunque definito di transizione fra l’atlantico e il continentale. Mediamente piovoso in primavera e autunno, freddo e asciutto in inverno, sempre ventoso. Di Bora e di Mornik, l’alter ego locale dello Scirocco immagino. Le rocce calcaree sono ricoperte da un sottile strato di terre rosse, argillose e per la regione sono sparse circa 5000 doline, tipici avvallamenti dalla sezione a ciotola.
Questa unicità del terroir marca i vini del Carso con un’acidità “ferrosa” identitaria permettendogli di essere immortali, mentre il calcare garantisce una spiccata componente salina che rimanda al mediterraneo. La gradazione alcolica non è mai elevata e per evidenti ragioni storico-sociologiche quasi tutta la produzione della regione slovena può dirsi naturale: qui la chimica non sapevamo mica cos’era.
I Cotar, da pronunciare Chotar, iniziano a imbottigliare il vino che già producevano per loro stessi nel 1990 (annata 1988), nell’evocativa cantina dislocata su tre piani interrati, iniziata nel 1974 e terminata nel 2002, con l’obbiettivo di rifornire l’osteria di famiglia. Ciò lì obbliga normativamente a smettere di macerarlo, pratica che viene ripresa nel momento in cui Branko decide di farne l’attività lavorativa principale. Quando? Sempre tra il 1997 e il 1998. Informazione che per ovvi motivi, considerato anche che tra i Cotar e il “gruppo Gravner” non c’erano rapporti, infittisce il mistero di cui ti parlavo all’inizio, mistero che però a quel punto della mattinata, rapito dal fascino, purissimo e un po’ selvaggio, dei luoghi e del mio cicerone, aveva per me perso ogni interesse.
Mi racconta poi che oggi hanno otto ettari e mezzo di vigna suddivisi in diciotto appezzamenti, tutti incastonati nella pietra, o su di uno strato di terra rossa prelevata in passato dalle doline o, dal momento che non è più permesso, su terreni dove è stato necessario il passaggio di una spaccasassi. In entrambi i casi i centimetri che separano la vite dalla roccia non sono mai più di trenta, quaranta al massimo. Insomma non proprio la cosa più semplice al mondo. E infatti lui e suo figlio Vasja, adesso al timone della cantina, hanno deciso che una volta arrivati a dieci si fermeranno, anche per non venire meno alla dimensione familiare che ne ha sempre caratterizzato la produzione, alla padronanza della qualità distintiva dei loro vini, marchiati appunto in etichetta con le proprie impronte digitali per rappresentarne credo e valore.
In vigna lavorano a guyot con circa 7300 piante per ettaro. Non usano erbicidi, pesticidi o quant’altro e il loro metodo di potatura mira a ottenere una bottiglia di vino per pianta. In cantina le fermentazioni avvengono per mezzo dei lieviti indigeni senza controllo della temperatura: l’importante spiega Branko è battere il cappello, più fa caldo più va battuto. Anche 4 volte al giorno. Il legno per l’affinamento non è mai nuovo e la permanenza, come per quanto riguarda la macerazione, cambia in base al vino. Per esempio la Malvasia macera per circa 7 giorni a contatto con le bucce e affina per due anni e mezzo mentre il Cabernet Sauvignon per rispettivamente 14 giorni e 7 anni. Spesso è prevista anche una lunga sosta in bottiglia e ovviamente non sono neanche lontanamente contemplate filtrazioni, chiarifiche o altre cose del genere.
Tutti i vini assaggiati quel giorno risultano una splendida summa di quanto appreso nel corso della visita, pieno territorio, gustativamente liberi da ogni sorta di sofisticazione e corredati da piacevoli acidità integrate. Surreali per beva, naturalmente gastronomici e dotati di una piacevole chiusura salino-minerale che li contraddistingue assai. I miei preferiti? Sicuramente la Vitovska 2019, ma del Terrano 2018, mangiando, ne berrei a secchiate.
Un’altra caratteristica saliente dei vini di Branko e Vasja, dei bianchi quanto dei rossi, è la durata nel tempo praticamente infinita, come già accennato, non dovuta al grado alcolico, che qui non supera mai i 12 gradi, bensì alla gestione della caratteristica acidità conferita dal terroir. In cantina sono peraltro custodite ancora alcune bottiglie risalenti a fine anni 80 e basta guardarci attraverso per rendersi conto della loro vitalità. Inoltre adesso i Cotar ha fatto uscire sul mercato il Merlot 2009, questione assai indicativa della concezione familiare sul rapporto tra vino e tempo.
E a proposito di tempo… improvvisamente si è fatta l’ora di pranzo e siccome mi era sembrato di aver rubato sin troppo tempo a Branko, nel corso dei ringraziamenti di rito, gli ho chiesto se gentilmente poteva segnarmi su MAPS la posizione di alcuni loro vigneti, così da darci un’occhiata in autonomia, senza disturbarlo oltre, prima di intraprendere la via di casa. Lui però non ha voluto sentire ragioni e in due minuti io e Pula stavamo seguendo la sua Opel Corsa bianca per raggiungere un vigneto sopra Gorjansko da cui ammirare praticamente tutto il Carso.
Febbraio non è che sia proprio il mese migliore per camminare la vigna, eppure da lassù, sferzato dal vento, sono riuscito a dare forma a tanti dei preziosi concetti ascoltati nel corso di quella splendida mattinata, convincendomi per l’ennesima volta che il più grande tesoro di un’isola, nascosto solamente a chi non vuole o sa vederlo, sono le persone che la popolano. Grazie Branko. Anche se chi legge penserà che sia impazzito, un giorno sarebbe un onore per me offrirti una bella Wiener Schnitzel. Magari bevendo un tuo rosso, ovviamente. Perché? Perché un pezzettino del mio cuore adesso giace incastonato nella pietra di Goriansko.
Vina Čotar
Gorjansko 4a,
6223 Komen, Slovenia
+386 41 870 274
www.cotar.si/it/