Barbaresco deriva dal termine latino “barbarica silva” (bosco dedicato dai romani al dio Marte). Oggi, ahimè, la selva non c’è più, ma son rimasti i barbari.
Tra di loro però alcuni si sono svegliati e hanno iniziato un percorso nella tradizione locale al di fuori del mito; Paolo Veglio di Cascina Roccalini, 40 anni, è uno di questi vignaioli e i suoi vini fanno paura. Per quanto sono buoni, si intende.
Poco più di due ettari di vigne in produzione danno vita a un Barbaresco Roccalini, a un Barbaresco riserva, sempre Roccalini (per ora prodotto solo nelle annate 2011 e 2013), e a un Langhe Nebbiolo che prende il posto del Dolcetto d’Alba e della Barbera d’Alba (peccato, mi gustavano alquanto).
Paolo, lavora le sue vigne a circa 250 mt sul livello del mare da quando ha 14 anni e oggi produce vino naturale.
Attenzione, non passa la vita a fare il fricchettone tra i filari, ma rispetta l’uva, il suo ego e la fiducia di chi sceglie il suo vino.
Ricerca la purezza del prodotto, non utilizza trattamenti di sintesi né diserbanti, solo rame e zolfo, cercando con una piccola stazione metereologica e un po’ d’intelligenza di limitarne la quantità.
Alla domanda “cosa fa più male alle viti?” risponde “il trattore”, strumento che cerca di utilizzare il meno possibile, in ogni filare un anno sì e uno no, per avere un terreno meno asfittico.
L’azienda conta anche 4 ettari di nocciole e tutte le vigne sono esposte a sud/sud-ovest e protette dal Tanaro, il suo miglior alleato nelle annate calde.
Nel 2016 ha acquistato alcune vecchie vasche di cemento, le ha rivitalizzate e adesso le usa perché simili alle damigiane, il suo contenitore preferito. Perché? Perché lì non c’è traspirazione, solamente una buona coibentazione e una straordinaria capacità di stabilizzazione del liquido, anche grazie all’assenza di cariche elettriche.
Il cemento controlla la fermentazione cedendo freddo durante la fase tumultuosa e calore quando questa rallenta, aiutandola a giungere al termine.
Per l’affinamento utilizza botti di legno della dimensione maggiore che poteva entrare in cantina e di forma ovale, prodotte da Mittelberger e sartorialmente costruite per essere “un vaso vinario che non dà gusto al vino, ma che lo prende dal medesimo”.
Non le tiene mai vuote per una questione di igiene e secchezza/porosità del legno, le lava solo con l’acqua e, prima dell’utilizzo, le tratta con la salamoia per togliergli ulteriormente il gusto legnoso.
Insomma Paolo, che ha frequentato 6 anni di scuola enologica e imbottiglia dal 2005, fa il vino come piace a lui, cercando l’equilibrio nel solco della tradizione. Ma fai attenzione: l’equilibrio, non il baricentro. Perché mille spigoli possono diventare un cerchio.
Il cru Roccalini è un vigneto nascosto, quasi periferico, a forma di anfiteatro esposto a sud/sud-ovest che già nell’ottocento il Fantini annoverava tra le migliori vigne di Barbaresco.
Fino al 1988 i fratelli Giacosa lo hanno imbottigliato da solo e successivamente le uve sono state convogliate in barbareschi generici. Nel 2005 però è iniziata la produzione di Cascina Roccalini e il resto della storia te l’ho appena raccontato.
Ti stai ancora chiedendo se mi sono piaciuti i vini? Anche se non credo serva, te ne parlerò nei miei post in futuro.
Adesso mi sento di darti solo un consiglio, inizia a preparati per quando uscirà il Barbaresco Riserva Roccalini 2013. Boom!