Mentre in Italia, salvo pochi casi come la milanese Cantina Urbana, il fenomeno delle urban winery fatica ad affermarsi, probabilmente per l’incapacità di far dimenticare a consumatori troppo tradizionalisti l’eterna dicotomia tra il mondo rurale e quello cittadino, all’estero invece, con America e Inghilterra a fare da capofila, le cose sembrerebbero essere ben diverse, anche per quanto riguarda la scena naturale. E infatti non sono pochi i ristoranti blasonati, ma anche le prestigiose enoteche, che ne inseriscono i vini in carta con l’obbiettivo di far assaggiare ai propri clienti qualcosa di a oggi unico, molto dinamico e certamente interessante.
Per questo motivo, curioso e assetato, anzi molto curioso e molto assetato, grazie ad alcuni giorni trascorsi a Londra, un sabato di giugno non ho potuto fare altro che unirmi a una piccola schiera composta da appassionati e ristoratori inglesi nella visita da Blackbook Winery, una, se non la più, elettrizzante urban winery naturale di Big Smoke.
Come è andata? Chi c’è dietro? Come erano i vini? Per avere le risposte a tutte queste domande non devi fare altro che continuare a leggere.
Situata sotto un arco della ferrovia di Battersea, nel sobborgo di Wandsworth, Blackbook Winery nasce nel 2017 come primo progetto solista dell’enologo Sergio Verrillo e di sua moglie Lynsey. Entrambi amanti appassionati della capitale del Regno Unito, coltivavano già da molto tempo il sogno di creare una cantina urbana a Londra che potesse rivaleggiare con le più grandi realtà vitivinicole sparse per il mondo. Sì rivaleggiare, perché non serve girarci troppo intorno: Sergio, innamoratosi visceralmente del vino durante il periodo passato a lavorare come sommelier negli stellati Maze, Tamarind e Chez Bruce (ristorante che conserva la stella ancora oggi), dopo aver terminato gli studi da enologo al Plumpton College nell’East Sussex e aver girato il “mondo enologico” in lungo e in largo per affinare le sue capacità, lavorando in Inghilterra da Greyfriars, in California prima da Flowers e poi da Calera, in Borgogna da De Montille, in Sudafrica da Mulderbosch e per ultimo in Nuova Zelanda da Ata Rangi, quel giorno mi ha fatto assaggiare diversi vini, molti dei quali, anche se non amo troppo questa espressione, erano davvero una bomba!
Ben consci delle problematiche dovute al clima del Regno Unito, primo fra tutte il fenomeno delle gelate tardive, Sergio e sua moglie partono dall’oramai fortunatamente assodato principio per cui non può esistere un grande vino senza un’uva eccellente. Per questo motivo a oggi hanno selezionato con maniacale cura una gruppo di coltivatori operanti sul suolo inglese che hanno la loro stessa filosofia e soprattutto la stessa spinta a creare il miglior frutto nel modo più naturale possibile, tutti raggiungibili in massimo due ore di macchina, cosa fondamentale per preservarne la qualità. Come Dale Symons che con la sua Clayhill Vineyard situata nella Crouch Valley, Essex, è stato il primo “fornitore” di Chardonnay e Pinot Noir, le due varietà principali con cui i coniugi Verrillo hanno scelto di lavorare. O come Ed Mitcham di Yew Tree, Oxforshire, dove acquistano, per sempio, il Seyval Blanc per il loro GMF… E infatti su ciascuna etichetta è indicato chiaramente e con orgoglio la provenienza della uve con il nome del fornitore.
In cantina l’approccio è ovviamente il meno interventista possibile. Senza stare ad annoiarti con il solito elenco di pratiche, o non pratiche, per cominciare a capire cosa aspettarti, sappi solo che Sergio e Linsey stanno cercando di enfatizzare la struttura dei loro vini lavorando con le fermentazioni tra acciaio e botti di rovere francese di capacità mai superiore ai 500 lt, più probabilmente da 228, e affinando la massa sempre per almeno 6 mesi sur lie.
Come ti raccontavo precedentemente, di Blackbook Winery mi hanno davvero colpito le due riserve assaggiate nel corso della visita, entrambe prodotte con le uve del Clayhill Vineyard in sole 290 bottiglie per ciascuna (in totale la produzione conta 25/30 mila bottiglie): il Painter of Light 2018, un intenso Chardonnay affinato per 24 mesi in legno e poi per 12 in bottiglia che esprime un grande capacità d’invecchiamento e una bella rotondità bilanciata da un importante base acida e il Night Jar 2018, un Pinot Noir assai elegante e complesso che sancisce lo stupefacente potenziale del macro terroir inglese, oltre che la grande capacità sensibilità enologica di Sergio. Inoltre ho apprezzato anche il GMF 2019, un metodo classico fresco e piacevolmente setoso e la millimetrica semplicità del Sea of Love 2020 (Pinot Blanc).
Adesso potrei proseguire, magari raccontandoti qualcosa sulla genesi delle loro etichette, ma non lo farò siccome non amo tutta l’attenzione che i wine lover contemporanei dedicano a questi sfavillanti adesivi. Perciò nel caso ne volessi sapere di più, scrivigli o valli a trovare, potresti scoprire un mondo inaspettato e sorprendente, fatto di persone vere e vini buonissimi, dove le barriere tra l’urbano e il rurale non esistono. O meglio, qualcuno le ha distrutte. E scusa se è poco.
Blackbook Winery
Arch 41, London Stone Business Estate, Broughton St.
SW83QR London (UK)
+44 7816 658471
www.blackbookwinery.com